RADICALI ROMA

La grande bugia dell’uscita dall’Euro

Di Francesco Mingiardi.

Uno degli argomenti più ricorrenti, quando si affronta il tema dell’Europa, concerne l’utilità della moneta unica rispetto agli obiettivi di crescita, coesione economica e sociale e stabilità, fissati nel trattato costitutivo dell’Unione Europea.
In Italia guadagna sempre più campo l’opinione secondo cui l’uscita dall’Euro, con il conseguente presunto recupero di sovranità, porterebbe la prosperità e la crescita perdute. La scelta dell’Euro, secondo questa impostazione, sarebbe stata sbagliata in origine e sarebbe tanto più nociva oggi nell’attuale contesto di crisi mondiale. L’uscita dall’Euro, al contrario, consentirebbe di riproporre manovre di politica monetaria eccezionali come quelle che abbiamo conosciuto nell’epoca antecedente all’introduzione dell’Unione economica e monetaria (Uem): svalutazioni competitive della moneta sovrana finalizzate a favorire le esportazioni e la ripresa economica.
In questi termini, l’Euro diviene una sorta di spartiacque della storia con un prima ricco e prosperoso e un dopo povero e decadente.
In realtà, entrambe le prospettive sono più false che vere, sono del tutto svianti rispetto alle vere cause delle attuali difficoltà e alludono a facili soluzioni che tali non sono affatto.
Innanzitutto, prima dell’Euro la situazione non era affatto florida. Nel 1993, quando è entrato in vigore il Trattato di Maastricht, il deficit pubblico italiano era stabilmente intorno al 9% del PIL e il rapporto debito/PIL era in continua ascesa – passato dal 101 % al 125 % tra il ’90 e il ’93 –, l’inflazione si aggirava intorno al 6%, mentre i tassi di interesse, al netto dell’inflazione, erano vicini al 10%. L’incapacità di seguire il passo degli altri paesi ha condotto all’uscita dell’Italia dallo SME, sistema dei tassi di cambio europei antecedente all’Uem. Proprio l’uscita dallo SME consentì l’ultima svalutazione competitiva della Lira italiana per circa il 30 % del suo valore.
Quando l’Italia ha riagganciato lo SME nel 1996, per non perdere il treno europeo, il mercato ha fissato il cambio con il Marco tedesco a 960 lit/DM, oltre 200 lire sopra rispetto al tasso del 1992. Questo livello di cambio si è, poi, stabilizzato determinando il tasso di cambio lira/euro a 1.936,27 lire per euro.
Se i fondamentali economi dell’Italia nei primi anni ’90 fossero stati migliori l’ingresso in Europa sarebbe stato meno penalizzante.
Quanto al dopo Euro, l’esperienza, fino all’alba della crisi del 2008, è stata tutt’altro che negativa.
Nel 2007 in Italia il rapporto deficit/PIL era sceso al 1,5% e il livello debito/PIL era tornato al 105%, dati comunque peggiori rispetto alla media dell’Eurozona.
Il miglioramento è dipeso dall’apertura delle frontiere, e quindi dalla libera circolazione di beni, servizi e persone, e dal calo degli interessi, derivato proprio dall’introduzione della moneta unica.
E proprio qui, sul confine dei benefici portati dall’Euro, si trovano le vere cause dell’attuale difficoltà Italiana.
Il calo degli interessi conseguente alla convergenza dei nostri tassi con quelli tedeschi avrebbe consentito di trasformare radicalmente il contesto economico italiano, se fosse stato abbattuto il debito pubblico già allora enorme e fossero state fatte le riforme radicali di cui il nostro paese aveva bisogno. Proprio le stesse riforme che si tenta di fare oggi in un contesto economico assai meno favorevole; prime tra tutte la riforma del sistema pensionistico e la riforma del mercato del lavoro.
Un cambiamento radicale sarebbe stato possibile sfruttando l’immenso risparmio derivante dal calo dei tassi di interesse, quantificabile in una cifra compresa tra i 300 e i 600 miliardi di euro. Se consideriamo che l’attuale debito pubblico italiano supera i 2000 miliardi capiamo subito quale immenso risparmio l’Euro avrebbe potuto consentire.
Invece questo immenso margine è stato sprecato in spese improduttive e, conseguentemente, in nuovo debito.
Dal 2000 la spesa pubblica, in calo dal 1996, ha ripreso a crescere con un tasso superiore al risparmio derivante dai tassi di interesse generati dall’Euro, principalmente a causa della riforma del titolo V della Costituzione (la riforma delle competenze delle Regioni).
Il bilancio della storia è impietoso: la condizione in cui oggi ci troviamo dimostra che questa maggiore spesa non ha affatto generato né un evidente miglioramento dei servizi, né la crescita che sarebbe stato lecito attendersi. Nonostante le tasse in continua e irrefrenabile ascesa la spesa pubblica ha continuato a salire a livelli di rischio.
Quando nel 2011 la situazione economica europea è precipitata l’Italia è stata colpita subito dopo la Grecia proprio a causa delle bassissime difese immunitarie. Il sistema Italia non è stato ritenuto affidabile dei mercati che hanno preteso che il rischio del fallimento del nostro paese fosse premiato in termini di tassi di interesse. Questa e solo questa è la ragione dell’ascesa dello spread fino alla soglia ormai storica di 574 punti base (5,75% rispetto ai tassi tedeschi). Quanto tutto ciò accadeva il rapporto debito/PIL italiano era al 124%. Oggi è al 134%. La carica batterica dell’organismo Italia è, quindi, ancora più elevata di quanto non fosse nel 2011.
Se questa è la vera storia del pre e del post Euro è altrettanto evidente che la soluzione non può essere data dall’abbandono della moneta unica.
Il mondo, dagli anni ’90 ad oggi, è cambiato e la globalizzazione ha fatto si che la catena produttiva dei beni di quotidiano consumo diventasse mondiale. Oggi tanto i beni tecnologi di consumo – tipicamente un cellulare – quanto i beni più tradizionali – per esempio uno spazzolino da denti – hanno componenti provenienti da diversi paesi e sono destinati al commercio planetario. I beni non hanno più una patria.
L’Italia contribuisce a questa catena mondiale in maniera molto più significativa di quanto non produca interamente dentro i propri confini.
In questo contesto, uscire dall’Euro per svalutare la futura moneta italiana avrebbe poco senso. Per molti dei prodotti esteri assemblati con componenti italiani il prezzo resterebbe determinato dalla domanda mondiale. Una macchina tedesca non sarebbe venduta negli Stati Uniti ad un prezzo minore né in un numero maggiore di unità se la componentistica italiana costasse meno. Della svalutazione, in casi simili, si avvantaggerebbe l’impresa tedesca, non quella italiana.
Senza contare che, a colpi di svalutazioni, l’Italia dovrebbe entrare in competizione con paesi come la Cina, che hanno un costo dei fattori produttivi talmente basso da non rendere nemmeno ipotizzabile una lotta dei prezzi al ribasso da parte nostra.
Peraltro, la svalutazione porterebbe all’inflazione e tutti i prodotti importati diverrebbero più costosi. L’inflazione salirebbe e colpirebbe, come di consueto, le fasce di popolazione più povere, che destinato il loro reddito al consumo di beni di prima necessità e non hanno lussi da tagliare.
Infine, il debito pubblico in mano a soggetti esteri dovrebbe comunque essere pagato e resterebbe denominato in Euro. Sarebbe un salasso pagare con la nuova moneta svalutata un debito denominato in Euro. O forse vogliamo pensare che l’Italia potrebbe permettersi anche di rinnegare il suo debito?
In definitiva, la soluzione di abbandonare l’Euro non è affatto una soluzione.
L’unica cosa da fare è rimboccarsi le maniche, fare le riforme giuste con i ristretti margini che ormai ci sono dati e trovare la strada dello sviluppo puntando sulla formazione sull’innovazione e sulla qualità.