RADICALI ROMA

Perché la parola “liberalizzazione” è ancora tabù nell’Italia del 2017?

Di Mario Pietrunti.

E’ partita la nuova campagna radicale sulla messa a gara del servizio di trasporto pubblico a Roma e già comincia a ingenerarsi confusione su quello che i Radicali vogliono ottenere. Infatti, un’iniziativa nata con l’intento chiaro di liberalizzare il trasporto pubblico nella Capitale viene deformata nei commenti che si leggono sulle pagine facebook della campagna e di Radicali Roma in un’iniziativa che avrebbe lo scopo di privare i romani di un bene pubblico, far entrare i privati nel mercato del TPL romano e farli arricchire a scapito dei poveri utenti. Sicuramente c’è una componente di superficialità o di malafede, come rilevava anche il nostro segretario Alessandro Capriccioli, in chi tende a distorcere il senso di questa iniziativa. Noi vogliamo più mercato, non monopoli (pubblici o privati), perché riteniamo sia l’unico modo di preservare per davvero un bene pubblico (il trasporto locale) e offrire agli utenti un servizio di migliore qualità senza che a rimetterci sia sempre il povero contribuente tartassato.

E però, dalle chiacchiere che mi è capitato di fare agli angoli delle strade già nei primi giorni di raccolta firme, mi accorgo che spesso anche nel passante disinteressato scattano dei meccanismi e riflessi quasi inconsci, segno di un retaggio culturale che forse si è formato anche in decenni di cattive – e a volte cattivissime – scelte di politica economica.

Senza scomodare eleganti teorie sociologiche, si può forse dire che la repulsione istintivamente presente in una parte dei cittadini di fronte all’ipotesi che un privato gestisca un servizio pubblico è anche legata al fatto che nel nostro paese il boom economico è stato per lo più realizzato attraverso politiche industriali che favorivano la creazione di campioni nazionali interamente controllati dallo Stato. Il modello dell’azienda di Stato raggiungeva quindi il punto più alto di consenso in una fase in cui la dimensione della torta aumentava esponenzialmente e le sue fette venivano distribuite a sempre più convitati. Un modello favorito dai partiti di governo, che vedevano nell’azienda pubblica una comoda fonte di posti di lavoro da distribuire per incrementare potere e consenso, e non avversato dal PCI, che forse tra le altre cose riconosceva nell’azienda pubblica un primo passo verso la completa collettivizzazione della produzione. Per parafrasare Clausewitz, l’azienda pubblica era dunque l’estensione della politica con altri mezzi.

E però decenni di dirigismo economico e questo modo di fare industria hanno generato costi sociali che ancor oggi paghiamo, con una crescita esponenziale fin dagli anni ’80 del debito pubblico, il quale andava a mascherare una perdita graduale di competitività e nascondeva la mancanza di idee della classe dirigente su come accompagnare il sistema industriale italiano verso una trasformazione e modernizzazione inevitabile per stare al passo con un mondo sempre più globalizzato.

I ritardi di programmazione accumulati nel tempo si è poi tentato di recuperarli con una stagione di privatizzazioni, che – avviate negli anni ’90 – lungi dal realizzare un’apertura piena a una economia concorrenziale, ha nei fatti avvantaggiato piccoli gruppi di potere che hanno attuato un grande classico dell’economia italiana, ovvero un processo di “privatizzazione dei profitti” e “socializzazione delle perdite”. L’arricchimento di pochi è quindi coinciso con la chiusura di fabbriche, la cassa integrazione dei lavoratori, il depauperamento di intere aree geografiche che fondavano la propria economia sull’indotto di importanti aziende statali o para-statali.

In definitiva, se all’orecchio del passante poco attento il suono della parola “liberalizzazione” viene recepita come “privatizzazione”, e privatizzazione evoca immagini non idilliache, non è certo solo colpa del povero passante. La cattiva politica, quella affaristica e partitocratica, ci ha messo del suo.