In molti Paesi europei le procedure per ottenere la pronuncia di divorzio sono semplici e veloci; per lo più tese ad incentivare le separazioni consensuali e ridurre i litigi in tribunale, con ciò garantendo la serenità della coppia e, soprattutto, il benessere dei figli.
Al contrario, in Italia, dopo la separazione (anche consensuale), marito e moglie sono costretti ad attendere tre anni prima di ottenere la cessazione degli effetti civili del matrimonio e potersi ricreare una famiglia. Senza contare che troppo spesso, a causa della lentezza della giustizia civile, i tempi di attesa superano di gran lunga il famigerato triennio.
Non più tardi di qualche settimana fa, dunque, abbiamo pensato, anche su impulso e sollecitazione delle segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, di lanciare un appello per la immediata istituzione della Lega Italiana per il Divorzio Breve; iniziativa con la quale intendiamo richiamare l’attenzione (o, meglio, l’impegno attivo) di tutti coloro che ritengono intollerabile che si neghi a qualcuno la possibilità, anzi il diritto, di determinare liberamente le proprie scelte di vita.
All’appello sono già seguite, in pochissimo tempo, più di sessanta adesioni di docenti, giuristi, avvocati e professori (la più significativa, quella del noto avvocato Cesare Rimini), oltre a quelle di decine di parlamentari di entrambi gli schieramenti politici nonché di molte personalità del mondo dello spettacolo e della cultura. L’obiettivo che ci proponiamo di raggiungere, come dicevamo, è atteso da centinaia di migliaia di persone che stanno o hanno intenzione di divorziare. Ma procediamo con ordine.
Trentasei anni fa, grazie ad una maggioranza laica, si riuscì ad approvare una legge sul divorzio che segnò una svolta civile per il nostro paese; dopodiché, nel 1974, un referendum popolare voluto da Gabrio Lombardi, da vasti settori del mondo cattolico e dalla DC di Forlani, si pronunciò a nettissima maggioranza per il mantenimento della predetta legge. Infine, nel 1987, con il voto favorevole della stessa democrazia cristiana, gli anni necessari per lo scioglimento del vincolo matrimoniale vennero responsabilmente ridotti da cinque a tre.
Ebbene oggi, rispetto a venti o trenta anni fa, il contesto sociale, culturale ed antropologico del nostro Paese è profondamente mutato; si è compreso, inutile negarlo, che il decorso del termine triennale, lungi dal rinsaldare la comunione di vita dei coniugi, ormai discioltasi, rischia invece di prolungare ed aggravare ulteriormente i già tesi rapporti personali tra marito e moglie, oltre a rappresentare un evidente trauma per i loro figli. Con questa iniziativa pertanto ci proponiamo di ridurre il tempo necessario a divorziare portandolo da tre a un anno, anche perché, come è a tutti evidente, quando una coppia arriva alla separazione significa che ha già abbondantemente consumato le ragioni del proprio stare insieme. Certo, sarebbe molto più ragionevole sommare separazione e divorzio come succede in molti paesi europei (soprattutto nei casi in cui la separazione è il frutto di una decisione consensuale), o, meglio ancora, quando cioè la rottura del menage familiare sia addebitabile ad uno dei due coniugi, rendere il divorzio un’opzione immediata. Al momento, però, abbiamo preferito, più realisticamente, puntare tutto sulla riduzione dei termini necessari per giungere allo scioglimento definitivo del matrimonio, obiettivo forse meno ambizioso, ma certamente non di più pronta realizzazione, se solo si pensa al fatto che sul finire della scorsa legislatura una proposta di legge simile venne discussa e bocciata in Parlamento a causa della forte opposizione degli ambienti cattolici (secondo certa dottrina cattolica, infatti, l’abbreviazione dei tempi necessari allo scioglimento del vincolo matrimoniale rappresenterebbe un grave attentato alla stabilità dell’istituto familiare).
In sostanza, all’ipotesi “divorzio breve”, il fronte dei supposti difensori della famiglia obietta che in presenza di figli la rottura del vincolo matrimoniale deve essere ben meditata, ché la coppia deve fare di tutto per rimanere unita proprio nell’interesse della prole. Sappiamo bene però che nella quasi totalità dei casi così non è: secondo recenti dati statistici, infatti, la durata media di un matrimonio è di tredici anni e il 13% delle coppie si separa dopo appena un anno di vita matrimoniale, se a ciò si aggiunge il mezzo milione di persone separate e non divorziate nonché il gigantesco fenomeno dei separati in casa, non rilevabile statisticamente, ci si rende perfettamente conto della realtà della crisi che l’istituto familiare tradizionale sta attraversando (e non da ora) in questo paese. E visto che quando si rompe una coppia spesso emergono tra i coniugi rancore, rabbia, accuse reciproche, voglia di farsi del male e desiderio di vendetta, non è forse giunto il momento di domandarsi se tutte queste siano condizioni adatte per famiglie con figli per i quali il trauma avviene semmai con la rottura della separazione e non certo con il divorzio che ne rappresenta solo la burocratica formalizzazione? Non sarebbe piuttosto preferibile consentire a tutti la riduzione a un anno dei tempi del divorzio come premessa per ricostruire rapporti urbani tra le persone facendo riferimento proprio alle responsabilità verso i figli? Non sarebbe meglio, soprattutto, consentire alle persone di ripensare il proprio futuro sentimentale, assecondandone la tendenza a coinvolgersi in relazioni “istituzionalmente più leggere” piuttosto che costringerle nell’infelicità di un rapporto deciso per decreto e tenuto in vita, seppure precariamente, da una serie di pesanti e penose incombenze burocratiche?
Sia chiaro che il nostro non vuole essere soltanto un legittimo richiamo al diritto di ciascun individuo di vivere liberamente la propria sfera affettiva, ma anche la ferma convinzione che a questa prospettiva sia legato il cosiddetto “bene collettivo”. Se si riflettesse su questi temi con la mente sgombra dai pregiudizi, infatti, ci si renderebbe conto che per fronteggiare i costi individuali ma anche sociali delle separazioni non serve reprimere il fenomeno, ma agevolare forme nuove di ricomposizioni e unioni. E’ in questa direzione che occorre muoversi, anche perché è la stessa società a chiederlo; società non solo sempre più dedita a stili di vita lontanissimi dall’Italia cattolica e rurale di qualche decennio fa, ma ormai anche in grado di poter affrontare relazioni affettive dove sia la responsabilità individuale e collettiva, più che la minaccia della legge, la ragione di fondo dello stare insieme. Compito dello Stato, semmai, è quello di limitarsi a fissare poche ma sicure garanzie per ciascuno dei partner, lasciando appunto che i cittadini liberamente e con maggiore flessibilità plasmino il loro vivere in coppia ed in famiglia. Da questo punto di vista velocizzare i tempi del divorzio vorrebbe dire andare incontro alle persone che sono in attesa di rifarsi una famiglia, ciò che consentirebbe finalmente al nostro paese di allinearsi anche su questo terreno agli standard degli altri paesi europei.
Pertanto, onde evitare che anche in futuro alle indebite intromissioni ecclesiastiche (che sicuramente continueranno ad esserci) non corrisponda la solita arrendevolezza di settori più o meno rilevanti del nostro Parlamento, abbiamo urgente bisogno dell’adesione e del sostegno di tutti quei cittadini convinti (come noi) che anche per l’Italia sia giunto il momento di procedere ad una seria ed effettiva semplificazione delle pratiche di divorzio; semplificazione grazie alla quale, chi lo volesse, vedrebbe finalmente garantita la possibilità di ricostruirsi una famiglia, o mettersi comunque nelle condizioni di poterlo fare, in tempi rapidi e certi.