Si può perdere la testa, con le migliori intenzioni. Gino Strada dice che in Afghanistan oggi si sta peggio che sotto i taliban. Si stava meglio quando si stava peggio. Dice che, se il governo cadesse sul problema della guerra, lui brinderebbe. La guerra di cui parla è l’intervento della Nato, autorizzato e ora implorato dall’Onu, in Afghanistan. Il governo di cui parla è il chiaroscuro governo di centrosinistra. Gino Strada è molto ammirato, e se lo è meritato. Anch’io lo ammiro, sul serio. Però so che dice delle sciocchezze colossali. L’ammirazione che si è guadagnato gli gioca un brutto scherzo: gli fa spendere il suo credito sostenendo presso un pubblico generoso quelle sciocchezze, diametralmente opposte agli ideali che vuole perseguire.
Strada cura le persone che hanno bisogno di cure. Spiega che non tocca a lui occuparsi di che governo sia in sella. Un ferito è un ferito, un malato è un malato, che si tratti di un bambino o di un uomo adulto, di un talebano o di un marine, di un signore della guerra o di una madre di famiglia. Così dev’essere. Strada protesta che il suo amore per la pace non è “di sinistra radicale”, né di altro colore. L’amore per la pace non ha colore o li ha tutti, come l’arcobaleno. Così dev’essere. Naturalmente, nella realtà le cose non vanno così nitidamente. Nella realtà si viene a patti con la situazione. Far funzionare un ospedale sotto i taliban può costringere a compromessi che sembreranno accettabili o no: non fosse che il compromesso inevitabile di rinunciare a denunciare l’infamia del regime dei taliban. Accettabile, perché non spetta al chirurgo la denuncia di un regime politico: e nessuna persona sensata glielo rimprovererà. Al contrario, ammirerà il modo in cui il medico sacrifica il proprio orgoglio a una causa più nobile e altruista. L’altro ieri, intervenendo all’assemblea romana “contro la guerra”, Strada ha parlato del governo Karzai come di “un regime di criminali e fondamentalisti”. Vorrei chiedergli, senza nessuna malevolenza, se abbia mai pronunciato un giudizio del genere durante il regime del mullah Omar: che era per antonomasia “un regime di criminali e fondamentalisti”, escluso dalle stesse Nazioni Unite, che pure hanno così gran braccia.
Oggi Strada incita a una campagna politica in nome del fatto che il regime attuale in Afghanistan è peggiore di quello dei taliban. C’è qui un’incoerenza, anche quando si ammettesse che l’assunto sia vero: ed è l’ultima delle cose che una persona appena ragionevole possa ammettere. Ci sono oggi manifestazioni contro la presenza di truppe internazionali in Afghanistan. Non ci furono ieri manifestazioni contro il regime dei taliban in Afghanistan. Strada, o altri, possono replicare che oggi c’è una guerra, e il regime dei taliban assicurava comunque una pace. Non è vero.
Una guerra intestina, anche dopo la cacciata degli invasori sovietici, non era mai cessata in Afghanistan. Il regime taliban, tirannide oscena quanto poche altre, forniva anche un territorio e una parodia di Stato al terrorismo di Al Qaeda. Strada non si stanca di ripetere che gli americani foraggiarono a suo tempo Bin Laden e i taliban. E’ vero: ma che cos’ha a che fare con l’eventualità di un ritorno incontrastato dei taliban a Kabul?
Strada si batte per la messa al bando del la guerra, e rifiuta di lasciarsi etichettare. Altri non esitano a dare al loro impegno un colore di sinistra. Anzi, pensano che pacifismo e sinistra siano oggi sinonimi, e anche che pacifismo e nonviolenza lo siano. Ci sono in questa bella illusione dei corto circuiti che danno la scossa. Prima ancora, c’è un equivoco micidiale. Perché una sinistra devota alla libertà e alla pace manifesterebbe non per liquidare, ma per migliorare la presenza di una forza internazionale legittima in Afghanistan: e legittima non vuol dire solo autorizzata dall’Onu – condizione che è oggi data senza riserve – ma proporzionata nel metodo e nei fatti al compito che proclama di voler svolgere, la protezione dei diritti umani e della democrazia. Dire no, senza alcuna distinzione, a qualunque impiego della forza, in Iraq o in Afghanistan, a Timor o in Bosnia o al confine israelo-libanese, è uno slogan infantile, un sacrificio tributato alla consolazione dell’assolutezza. Il punto più debole della missione afghana sta nella mancata valutazione e discussione pubblica, in Italia, del fine dell’intervento e della sua efficacia; e, rispetto ai paesi alleati, nella inesistente o insignificante voce italiana in capitolo. La stessa misconoscenza, che conduce a una presenza militare inerte e inadeguata, viene lamentata negli altri paesi che hanno in Afghanistan una forza significativa, come la Francia.
Noi disponiamo di qualche buon reportage (i lettori di Repubblica conoscono gli ottimi di Guido Rampoldi, delle opinioni, divenute un increscioso duello, di Strada ed Emergency da una parte e Alberto Cairo dall’altra, e poco più. I nostri militari, di ogni grado, sono assenti, e non si capisce proprio perché, dato che la loro esperienza non può che essere istruttiva. Solo una malintesa chiusura da corpo separato, e un’ancor più malintesa subordinazione al primato della politica e della sua vanità, fa sì che dei militari senz’altro in grado di valutare in modo serio le ragioni e i modi di una presenza (o di un ritiro: il generale Mini, per esempio, fresco pensionato, sembra favorevole al ritiro, e con argomentazioni di merito) non figurino nella discussione italiana, e siano sostituiti da opinionisti televisivi di ruolo.
Proverò per un’ennesima volta a dire a interlocutori persuasi di essere i titolari in esclusiva dell’avversione alla guerra, e gli ultimi resistenti della fedeltà ai principii (dentro la “casta politica”: perché, quanto al popolo, sono convinti di averlo largamente dalla propria), quale considerazione agisca per me con una forza di principio. Lo dirò con un argomento preso a prestito, con una piccola forzatura retorica, dalla retorica del buon chirurgo. Le persone soffrono di malattie e di ferite, e hanno bisogno di un pronto soccorso, un ospedale, medici e infermieri capaci e appassionati. Soffrono anche, però, dell’oppressione, della prepotenza, del carcere domestico per le donne, dell’esclusione dalle scuole per le bambine, delle frustate per chi ride a gola piena, della galera per i dissidenti, dell’umiliazione di desideri e diritti. Nei confronti dell’oppressione di governi brutali contro i loro stessi sudditi, della sofferenza impressa nei loro corpi e nelle loro anime, noi, loro simili privilegiati, siamo come altrettanti medici senza frontiere, altrettanti soccorritori d’emergenza, tenuti a occuparcene, a solidarizzare, a prendercene cura. E come lo sappiamo oggi perché abbiamo ripensato alla nostra storia, e perché il mondo ci si è così rimpicciolito addosso se fossimo tutti legati a una deontologia, a un universale giuramento di Ippocrate. Il quale ci impegna a mettere la guerra al bando dalla vicenda umana, e, proprio per questo, a metterle sosta o fine dove infuria, a intervenire con una legge internazionale, un tribunale internazionale, una polizia internazionale, dove sia violata l’incolumità di comunità e minoranze e persone, e sia schiacciata la loro dignità. Negare questo, o peggio non vedervi se non un capzioso gioco di parole, equivale a negare che dentro la sovranità degli Stati nazionali, feticcio ravvivato dal pacifismo assolutista, ci sia bisogno di una legge, un tribunale, una polizia. Cioè una forza legittima e proporzionata e trasparente: il contrario della potenza tracotante e smisurata e opaca della guerra.
I miei argomenti, come si vede, non hanno fin qui toccato la questione del governo: benché io legga con raccapriccio che Strada “brinderebbe alla caduta del governo” su quello che chiama il tema della guerra; ben che ascolti con amarezza i senatori che parlano di sè come Resistenti, e
i loro tifosi che irridono alla “sindrome del governo amico”. Non l’ho toccata perché sono persuaso della loro sincerità spinta fino alla superstizione. Sono persuaso che voteranno, in più o meno degli otto saliti alle cronache, ignorando le conseguenze per il governo, e che nessun argomento sappia intaccare il loro partito preso. Del resto, la venerazione del “senza se e senza ma” esclude un confronto che possa portare a reciproci riconoscimenti. Se fosse vero il loro assunto da una parte l’inabissamento italiano in una guerra d’aggressione globale asservita agli Stati Uniti, dall’altra la tenuta di una maggioranza – nessun argomento terrebbe. Tanto meno gli argomenti pratici, come il regalo fatto al centro destra: essi deridono la “riduzione del danno” in cui vedono solo un miserabile espediente (strano, per chi ha dovuto occuparsi di tossicodipendenza), perché l’etica non viene a patti con la pratica. Con la logica però anche i principi più solenni dovrebbero fare i conti. E dunque, a che cosa servono, nell’Europa di oggi, le elezioni politiche, che cosa si va a fare in Parlamento? Non voglio spingere il sospetto nei confronti della “sinistra radicale” fino al folklore di immaginarla ancora persuasa che si vada in Parlamento per impedirgli di funzionare, spingere alla crisi della “democrazia borghese”, e prepararle una soluzione sovietica non appena le masse saranno di nuovo mature (Qualcuno tuttavia parla ancora questa lingua morta). Resta, dichiarata da loro, la “questione di coscienza”. Ebbene, se si riconosca, laicamente, semplicemente, che alle elezioni si partecipa, e in Parlamento si sta, per far governare una maggioranza contro l’altra, il desiderio di fare la rivoluzione o l’obiezione di coscienza devono trovarsi altri campi da gioco. Nelle elezioni politiche si gioca sul tanto una maggioranza contro l’altra. Non è in ballo il proprio ideale e nient’altro, la rivoluzione o la purezza della coscienza, l’assolutezza che non ammette termini di confronto, bensì il confronto fra quello che consente la propria maggioranza, e quello che assicurerebbe l’altra. Con l’altra Calderoli direbbe che i francesi sono negri musulmani e comunisti, ma da ministro. Con l’altra si avrebbe un filoamericanismo di principio (e un filoputinismo di fatto). Poco europeismo, poca autonomia, poca distinzione. Se davvero la coscienza personale osta insuperabilmente a un voto sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, si può lasciare il proprio seggio al prossimo della lista, e tornare nei luoghi in cui l’assolutezza morale è di casa. Così si rispetterebbe il debito con la propria coscienza, e non si metterebbe a repentaglio quel governo per il quale la meta più uno, almeno, degli italiani ha votato, e con una cosi grande aspettativa. Non lo faranno, i senatori tanto applauditi nell’assemblea romana da diventare ostaggi di quegli applausi. E del resto hanno giustificazioni da accampare, in una maggioranza che a ogni pié sospinto vede spuntare una cresta pronta a cantare il proprio ricatto: O mi date il tal ministro o sottosegretario… O correggete la tale legge come piace a me… Canzone di tutti i giorni. In un paese normale, e in una democrazia dell’alternanza, tutti i partecipanti di uno schieramento dovrebbero attenersi alla premessa di non evocare mai la minaccia di far mancare la maggioranza. I loro rispettivi argomenti diventerebbero così argomenti, liberi, disinteressati, con vinti: altrimenti, sono piccoli ricatti. O grandi, dipende dalle conseguenze.