RADICALI ROMA

Dove finisce la vita

La vicenda drammatica di Piergiorgio Welby, con il suo appello al capo dello Stato dello scorso settembre, ha dato un forte impulso emotivo al dibattito già da tempo avviato al Senato sull´accanimento terapeutico, mostrando come il vuoto legislativo che ancora persiste nel nostro Paese di fatto costringa medici e malati a situazioni di disagio e di ingiustizia che tutti, unanimemente, critichiamo e pensiamo vadano evitate.

Ora Piergiorgio Welby, con la lettera indirizzata al Parlamento, afferma che ricorrerà alla disobbedienza civile, considerandola «l´unica via percorribile» dal momento che dopo il suo appello non ha ricevuto nessuna risposta concreta.

Welby sta conducendo una battaglia ammirevole nella sua tragicità, terribile e frustrante in quanto legalmente, in questo momento, non possiamo che condividere la sua sofferenza umana nell’impossibilità di poter proporre una soluzione concreta accettabile.

Va però sottolineato che l’attuale maggioranza non sottovaluta affatto questo problema e sta lavorando in maniera seria per arrivare in tempi rapidi all’approvazione di una legge sul testamento biologico e contro l’accanimento terapeutico, che rappresenti una risposta alle tante domande che si fanno ogni giorno più pressanti. In particolare, la Commissione sanità del Senato ha posto all’ordine del giorno già dallo scorso luglio i disegni di legge che riguardano le direttive anticipate di vita e una delle otto proposte attualmente in discussione vede proprio i sottoscritti come primo e secondo firmatario. L’interesse del Parlamento esiste, è anzi molto forte, e si sta lavorando per arrivare ad un testo il più possibile condiviso, da presentare al voto dell’aula di Palazzo Madama e successivamente alla Camera. Del resto, non si tratta a nostro avviso solo di approvare una legge ma di assolvere ad un obbligo morale e di recuperare il grave ritardo del nostro paese rispetto al resto d’Europa e di molti altri paesi del mondo.

Qualche chiarimento sulla proposta che noi sosteniamo ci sembra d’obbligo. Innanzitutto non parliamo di eutanasia. Questo termine, che suscita forti contrasti ogni volta che viene pronunciato, significa letteralmente porre fine alla vita di un paziente, gravemente ammalato e incapace di sopportare oltre la sofferenza, attraverso la somministrazione volontaria da parte di una persona, solitamente un medico, di una sostanza velenosa che conduca immediatamente alla morte. Messo da parte questo argomento, il diritto che si vuole riconoscere è invece quello di permettere ad ogni persona di indicare le cure ed i trattamenti che ritiene accettabili per se stesso, nel caso in cui diventi incapace di intendere e di volere o impossibilitato a comunicare. In altre parole, il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di procedure e terapie anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale. Si tratta di un diritto che oggi ogni paziente consapevole ed in grado di comunicare esercita attraverso il meccanismo del consenso informato, accettato da tutti ed obbligatorio per legge.

Nel nostro modo di vedere le cose, le direttive anticipate di vita e il rifiuto dell’accanimento terapeutico, non sono altro che un allargamento dello spazio di libertà individuale che già esiste nel nostro paese e che viene regolarmente rispettato. Ognuno di noi ha esercitato almeno una volta questo diritto o lo ha visto fare ad un proprio familiare. Quando, infatti, si viene ricoverati per un intervento chirurgico anche banale o per un esame diagnostico come la gastroscopia o la Tac con un mezzo di contrasto, ci viene sottoposto da un operatore sanitario un modulo in cui sono descritte le caratteristiche della procedura, le possibili conseguenze i rischi ecc. Il medico avrebbe il dovere di spiegare e chiarire tutti i punti e, anche se purtroppo questo non avviene sempre nelle modalità previste e con la dovuta attenzione, solo dopo che il paziente ha compreso tutto ed ha accettato formalmente di sottoporsi alla terapia, firmando l’apposito modulo del consenso informato, il medico può procedere.

Questo diritto non viene invece ancora riconosciuto alle persone che si trovano in coma oppure in stato vegetativo permanente e che non possono esprimere personalmente le proprie volontà. Di qui l’esigenza di una legislazione sui trattamenti di fine vita per poter indicare, prima che sia impossibile, che cosa si ritiene accettabile e che cosa no e ribadire in questo modo l’autodeterminazione dell’individuo rispetto alla propria vita.

Pensiamo a tutte quelle persone a cui vengono prolungate le funzioni vitali artificialmente grazie al ricorso di macchinari e tecnologie assolutamente fuori dall’ordinario, collegati ad un respiratore automatico, ad un apparecchio per la dialisi per filtrare il sangue, alimentati ed idratati con una sonda collegata all’intestino attraverso un’incisione chirurgica dell’addome e dello stomaco e via di seguito. Pensiamo anche a quei corpi abbandonati dalla vita, come è il caso di Eluana Englaro, ma incatenati ad un’esistenza puramente biologica e per nulla naturale. Ma pensiamo anche alle famiglie a cui non viene data la possibilità di iniziare ad elaborare il lutto e quindi costrette a prolungare sofferenze devastanti quanto inutili.

Tutto questo si chiama accanimento terapeutico, eppure se oggi un medico in Italia decidesse di «staccare la spina» correrebbe il rischio di essere accusato di omicidio volontario.

Non possiamo dunque negare la necessità e l’urgenza di una legge che riveda questi principi e attribuisca al paziente, o in alternativa alla famiglia o ad un fiduciario, la possibilità di decidere di porre fine a cure inappropriate che prolungano le sofferenze e non rispettano la dignità di chi non ha più alcuna possibilità di recupero. Crediamo che chi si esprimerà contro questa proposta lo farà solo per logiche di schieramento, certo non potrà nascondersi dietro al debole paravento della difesa della vita. Nessuno infatti può affermare, se non in mala fede e per meri fini ideologici, che l’accanimento terapeutico significa difesa della vita! Non si tratta di altro che la semplice accettazione che non vi è più nulla da fare. Sarà comunque inevitabile che, pur partendo da un presupposto condiviso a larga maggioranza, ci si confronti su alcuni punti tecnici che richiederanno un rigoroso ed ampio dibattito.

I tempi parlamentari si sa, non sono tali da poter proporre soluzioni nottetempo. Il processo per arrivare all’approvazione di una legge prevede passaggi obbligati che possono essere percepiti come un’ingiustizia da chi si trova nella condizione di attesa ma sono tuttavia necessari perché la legge sia uno strumento valido nelle mani di chi poi dovrà applicarla. Su temi così delicati il rischio è quello di non comprendere tutte le possibili implicazioni di una norma e poi ritrovarsi con un nuovo caso Englaro senza che i medici abbiano a disposizione un punto di riferimento chiaro. Non è un lavoro facile e i rappresentanti dell’associazione Luca Coscioni, molto attivi e determinati a fare tutte le pressioni possibili affinché la legge proceda rapidamente, lo sanno bene. Concordiamo sul fatto di mantenere alta l’attenzione su questi temi e sulla necessità di condurre, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica, azioni incisive di sensibilizzazione sulle tematiche che riguardano la fine della vita.

Sono temi complessi che impegneranno i parlamentari nei prossimi mesi, ci auguriamo in un clima costruttivo perché l’obiettivo, non dobbiamo perderlo di vista, è dare ad ogni cittadino la possibilità di finire la propria esistenza con la dignità che ognuno considera appropriata per se stesso.