RADICALI ROMA

Il dottore dei cinquemila aborti: più rifiuti tra i giovani colleghi

 

Almeno cinquemila interruzioni di gravidanza sulle spalle, per trentasette anni di carriera da ginecologo abortista. Mauro Buscaglia, 62 anni a giugno, non riesce a smettere di fare aborti neppure da primario dell’ospedale San Carlo. «Sono costretto ad andare avanti — confessa —. I neolaureati sempre più spesso non ne vogliono sapere». La sua è la testimonianza di una vita in sala operatoria nella Milano dai settemila aborti l’anno dove oggi due medici su tre sono obiettori di coscienza (nel resto d’Italia la percentuale è del 59 per cento). Il lavoro se lo devono spartire 140 ginecologi sui 383 ingaggiati dagli ospedali. «Dagli aborti con la pinza ad anelli a quelli con il metodo karman, ogni volta è stato un dramma interiore. E lo è ancora, anche e soprattutto, perché tra i giovani medici milanesi cresce il rifiuto di eseguire le interruzioni di gravidanza — racconta Buscaglia —. Ma davanti agli scrupoli di coscienza la mia testa ritorna sempre indietro agli Anni Settanta. Alle immagini delle donne che arrivavano in ospedale con l’intestino estirpato dalle mammane durante gli interventi clandestini. Ogni volta ritrovo la forza per andare avanti». È il 1971 quando Buscaglia entra in Mangiagalli, la clinica dove sette anni più tardi verrà eseguita la prima interruzione di gravidanza legale (e dove nel 2004 è stato introdotto uno dei primi codici di autoregolamentazione d’Italia per abbassare il limite degli aborti terapeutici alla 22ª settimana).

 

 

Una laurea in medicina appena conquistata, il primo lavoro scientifico che gli viene affidato è un’indagine sulla mortalità delle donne. Un dossier da elaborare cartelle cliniche alla mano. «Così scoprii che l’aborto clandestino era la terza causa di morte dopo le emorragie e l’ipertensione — ricorda il ginecologo —. Poco dopo entrai nella pattuglia dei giovani medici che si battevano per la legalizzazione delle interruzioni di gravidanza». Intorno alla stanza 6 della Mangiagalli nascono discussioni, scontri, risse. Qualche volta si rischia anche di venire alle mani. «Tutte esperienze che mancano alle nuove generazioni — denuncia Buscaglia —. L’applicazione della legge 194 adesso viene considerata un problema che riguarda gli altri perché non c’è più l’ideologia di allora ». Sono anni di lotta che Buscaglia non riesce a dimenticare durante tutta la sua carriera che lo porta a lavorare per otto anni al San Paolo e, dal 1997, al San Carlo. In corsia giorno e notte.

 

 

 

«Non sarò mai un abortista pentito, anche se ogni interruzione di gravidanza è un peso sulla coscienza. È una ferita destinata a non rimarginarsi: vuol dire avere fallito nell’attività di prevenzione — ammette —. Il senso di impotenza aumenta quando si capisce che la donna è spinta ad abortire per problemi economici. Non sempre si riesce a offrire un aiuto concreto, soprattutto nel caso delle extracomunitarie ». Sullo sfondo del racconto restano i dati choc diffusi dalla Mangiagalli nel luglio 2006, ma ancora validi: «Sui 1.720 aborti all’anno della clinica almeno un terzo riguarda pazienti in difficoltà economiche». Il vento di bufera che soffia sulla 194 non spaventa Buscaglia.

 

 

 

«Trent’anni dopo la sua approvazione è giusto tornare a discutere della legge — dice —. Ma senza intaccarne i principi. L’importante è che il dibattito sia costruttivo». L’argomento che tiene banco negli ospedali di Milano sono le linee guida annunciate dalla Regione Lombardia per limitare l’aborto terapeutico alla 22ª settimana e vincolare l’interruzione di gravidanza per motivi di salute al via libera di un’équipe di specialisti (tra cui, eventualmente, uno psichiatra). «È importante che venga lasciata una scappatoia caso per caso», s’azzarda a suggerire Buscaglia. Del resto, dopo la morte dei ginecologi Giorgio Pardi e Umberto Nicolini, entrambi scomparsi di recente, il medico è considerato l’ultimo testimone della storica battaglia a difesa della libertà di scelta delle donne. «Altri tempi», dice mentre si prepara a entrare in sala operatoria. Per l’ennesima volta. Suo malgrado, ma a testa alta.