«Cuor contento, il cul l’aiuta!», ridevano i suoi uomini con un ritocco goliardico all’antico proverbio. E lui, Romano, ha fatto finta di crederci sul serio, che alla fine con un po’ di fortuna tutto si sarebbe sistemato. E a chi toccava ferro perché il suo governo aveva giurato il 17 maggio proprio come nel ’96, rispondeva: «Ma nooo! Stavolta non era venerdì 17!».
E per mesi aveva ostentato una fiducia esagerata: «È un governo seeerio e coeso, coeso e seeerio!». Macché. È finita come l’altra volta. Sorridevano tutti, a vederlo grondare d’ottimismo. Lui, incurante, tirava diritto: «Me l’ha insegnato mio padre. Diceva che quando i soldati vanno in guerra quelli con la faccia triste non tornano mai». Intorno era tutto un baccano di galletti e galline, pulcini e capponi decisissimi ciascuno ad avere tutto e subito: l’abolizione della Bossi-Fini e il ritiro dall’Iraq e la manica larga sugli spinelli e la chiusura del Cpt e i Pacs alla Zapatero e l’aliquota per i «ricchi» al 47% e il muso duro ai vescovi e una legge sull’eutanasia e la rimozione della riforma Moratti e la supertassa sulle jeep e mille altre cose ora clericali e ora laiciste, ora moderatissime e ora radicalissime. E lui: «Siamo sereeeni. Seri e sereeeni».
Ricordate cosa disse quando andò a Palermo ad appoggiare Rita Borsellino? Disse che sì, certo, c’era un po’ di caos ma dovuto solo alla fase di collaudo: «Vi assicuro che presto il governo sarà a punto e girerà come il motore di una Ducati o una Ferraaaari». Lo fischiavano e sorrideva. Lo insultavano e sorrideva. Gli facevano gli agguati e sorrideva. Deciso a non darla vinta ai pessimisti che gli additavano i nuvoloni prefigurando bufere: «Conoscete la barzelletta? A un aspirante ferroviere viene chiesto cosa farebbe in caso di nebbia se ci fossero due treni in arrivo sullo stesso binario. “Agiterei la bandiera” risponde. E se la nebbia fosse così fitta da impedire di vedere la bandiera? “Accenderei le fiaccole”. E se la nebbia fosse così fitta da impedire di veder le fiaccole? “Userei i petardi”. E se la nebbia fosse così fitta da aver inumidito i petardi? “Allora chiamerei mia moglie: Rosina, vieni a vedere che disastro!”».
Insomma: perché avrebbe dovuto andare tutto storto? Poche settimane prima delle politiche aveva detto a Giampaolo Pansa: «Se vinciamo e si fa il governo, a quel punto non esiste una via di mezzo: se cado io, o se i miei mi fanno cadere, cade anche il governo e si va di nuovo a votare. A me non piace mediare. Voglio governare. Ogni volta che si riunirà il Consiglio dei ministri, non si discuterà, ma si deciderà». Sì, ciao. Una via crucis quotidiana. Con la maggioranza che al Senato perdeva un pezzo al giorno. E andava sotto su questo e sotto su quello. E via via si sfilacciavano i rapporti non solo politici ma umani.
Presidente, preoccupato? Ma no, rispondeva agli amici di Die Zeit dubbiosi su come avrebbe fatto a tener insieme i nove pezzi dell’Unione: «All´interno dei vostri due partiti di coalizione esistono quaranta diverse correnti, non solo nove! I tedeschi, mi perdoni la franchezza, hanno impiegato molto più tempo a stringere il patto di coalizione rispetto a noi. Ci hanno messo due mesi! In un mese io ho fatto eleggere i presidenti delle due Camere, un presidente della Repubblica, formato il governo e superato il voto di fiducia. Siamo italiani, ma mi sembra che da voi il tutto proceda con molta più fatica. Noi abbiamo solo più folklore, Rifondazione comunista, i Comunisti italiani. Ma a confronto di Lafontaine, è qualcosa di abbastanza innocuo». Quindi, perché dare peso a qualche capitombolo?
Succedeva anche a Bettino Craxi, che se ne infischiava: «Sono stato presidente del Consiglio quattro anni, sono andato sotto 180 volte e non è mai accaduto nulla». E mentre gli elettori assistevano attoniti alla cagnara, che raggiunse l’apoteosi nella elaborazione della Finanziaria «modello avanti-indré», lui spargeva ottimismo come quando spiegò a Gianni Riotta: «Ci sono stati quattro casi di coscienza sull’Afghanistan, è vero. Ma siamo ancora qui, mi pare. Avessimo vinto le elezioni con più agio sarebbe stato più facile, ma così è più thrilling, c’è più avventura. Vuole la verità? È più sexy!».
Un martello pneumatico, era: «Abbiamo avuto l’incarico di governare dagli elettori di cinque continenti. E governeremo». «C’è l’impegno di tutti affinché questa coalizione vada avanti nei prossimi cinque anni. La coalizione è questa. Non cambia. Dura l’intera legislatura». «Resteremo uniti e governeremo per cinque anni, ridaremo all’Italia un ruolo serio e internazionale». «È una squadra, la nostra, coesa e omogenea, dureremo cinque anni». «Sono tornato ieri dalla Cina e non ho sentito nessuno che mi abbia detto che il governo non è fortissimo. La fiducia è totale, completa. Dureremo cinque anni». E le ruggini nella maggioranza? «Ripeto, il mio governo governerà. Punto». E sbuffava: «Sulle missioni internazionali si deciderà a maggioranza ma quando c’è da decidere, io decido».
Sullo sfondo, nell’immaginario suo e in quello degli altri, compreso Silvio Berlusconi che arrivò a sospirare «sì, questi reggono cinque anni», c’era sempre l’evocazione di quel «fattore C.» cantato ironicamente da Edmondo Berselli: «Il Culo di Prodi è una categoria mitologica. Come tutti i fenomeni meravigliosi, come un monstrum smisurato e stupefacente, come un prodigio preternaturale, una chimera, una fenice, una cometa, il C. di Prodi è un Ente largamente imprevedibile».
Macché, è finita come nel ’98. E’ andato alla conta e ha perso. E chi è stato stavolta, a volere il braccio di ferro? Massimo D’Alema. L’uomo che secondo Adriano Sofri «è cresciuto alla scuola di Craxi, il più grande giocatore d’azzardo del dopoguerra». Quello che, indicato dai più sospettosi come colui che aveva ordito la prima caduta di Romano, aveva mandato a dire per bocca di Fabrizio Rondolino che lui certi errori non li faceva: «Massimo, Mussi e Minniti fecero i conti il giorno prima. E mi ricordo che D’ Alema, alle dieci di sera, ci disse: “Siamo sotto di uno”. Lo sapevamo noi e lo sapevano anche a palazzo Chigi. Tant’è vero che all’indomani, all’alba, Minniti incontrò Cossiga per chiedergli l’astensione. Perciò, in aula, prima della fiducia, Violante dalla presidenza chiese a Prodi se voleva parlare. Avrebbe dovuto dire che era disposto a prendere anche altri voti oltre a quelli della sua maggioranza, così avrebbe ottenuto l’appoggio di Cossiga, ma lui non lo fece, e andò sotto».
«Come hanno fatto, ad andar sotto di nuovo?», si chiedono oggi basiti gli elettori di sinistra. Ma i maligni tornano a farsi un’altra domanda. Partendo da una confidenza dalemiana: «Il gioco d’azzardo è divertente come calcolo delle probabilità, funzione, strategia. Ma non mi piace l’elemento maniacale. A un certo punto non hai più il governo di te stesso. A me piace il gioco in cui uno non perde mai il controllo di sé, anzi assume il controllo del campo e di tutti gli attori in gioco. Questo sì, mi piace». Ecco: sfidando la sinistra più accesa, alla vigilia del voto di ieri, con quell’alternativa secca riassunta dal manifesto col titolo «Kabul o morte», quale calcolo aveva fatto esattamente, Baffin di Ferro? Ha perduto il controllo o lo sapeva, che finiva così?