RADICALI ROMA

Il partito feudale

Molti maggiorenti del costituendo Partito democratico forse non se ne rendono conto ma c’è il rischio che la nascita del nuovo partito non sia una cosa seria, proprio il contrario di quei solenni atti fondativi da cui prendono vita le imprese importanti e durature.

Dopo l’autocandidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico ci si poteva aspettare che altri dirigenti, in disaccordo con la linea politica da lui tratteggiata, si candidassero subito a loro volta. Per dare vita a una vera gara. Invece, al momento, aperte critiche ai contenuti del discorso di Veltroni non ne sono state ancora fatte, i potenziali sfidanti tentennano, e i «veri» capi dei due partiti che si vanno a fondere (Ds e Margherita) cercano di scongiurare un conflitto per la leadership. In compenso, stanno sbocciando, come cento fiori, le «liste per Veltroni». Da quel che si capisce, chiunque voglia piazzare se stesso e gli amici suoi negli organi dirigenti del futuro partito metterà in piedi la sua «lista per Veltroni» e ogni lista, naturalmente, avrà il suo marchio («cattolici per Veltroni», «girotondi per Veltroni», eccetera) e i suoi nobili propositi politici. L’impressione è che più che un problema di «tecnica» ci sia un problema di cultura politica. Non viviamo in una «democrazia popolare». Certi riti, pertanto, bisognerebbe evitarli. Fanno, come dire?, una brutta impressione. In un normale partito occidentale il solo autorizzato a dare vita a una «lista per Veltroni » dovrebbe essere Veltroni medesimo. Gli altri, tutti gli altri, dovrebbero candidarsi nella sua lista o sostenerla se concordano con lui, oppure, se non concordano, dare vita a liste contrapposte alla sua, con altri contenuti e altri candidati.

I partiti, sempre e in ogni luogo, hanno una natura oligarchica. Nessuno poteva essere così ingenuo da pensare che il Partito democratico risultasse un’eccezione. Esso non può che nascere da una fusione di oligarchie e di apparati dei partiti preesistenti. Ma la fusione può avvenire in modi diversi. Quella che si prospetta (come, fra i dirigenti, il solo Arturo Parisi ha subito colto e denunciato) è la peggiore delle fusioni possibili.

Ciò che si sta delineando è un partito con una struttura «feudale» (altro che federale), un partito che nello stesso momento in cui incoronerà Veltroni darà anche vita a un sistema strutturato di correnti, ciascuna facente capo a un notabile. Ne verrebbe fuori qualcosa di simile alla Polonia settecentesca. Tra l’altro, un partito così fatto toglierebbe in partenza al pur plebiscitato Veltroni lo spazio di manovra necessario per un vero esercizio della leadership.

Ferma restando l’inevitabilità della fusione fra oligarchie e apparati, c’è anche un altro modo. Consiste in un uso «non improprio» delle primarie: chi non concorda con Veltroni dovrebbe scoprirsi e candidarsi proponendo cose diverse da quelle che propone lui (e fare poi pesare, in caso di sconfitta, i consensi raccolti). Per esempio, davvero nessuno, nel Partito democratico, ha da obiettare all’«assordante silenzio» di Veltroni (critiche agli americani per l’Iraq a parte) sulla politica internazionale? Che identità potrà mai avere un partito il cui leader designato non propone alcuna scelta di campo di fronte alle gravi sfide internazionali in corso?