RADICALI ROMA

Il ritorno velleitario alle pensioni che furono

  Com’era bella, in apparen­za, la vita degli italiani quando una semplice for­mula consentiva loro di calcola­re, senza troppa incertezza, la propria pensione: il due per cen­to di una media (diversa da cate­goria a categoria, e decisamente più favorevole nel pubblico im­piego) della retribuzione finale moltiplicata per gli anni di vita lavorativa dava la sicurezza di arrivare all’8o% della retribuzio­ne finale con 40 anni di contribu­zione, al 70% con 35, e così via.

 

 

 

Com’è peggiorata invece la vita, in seguito all’introduzio­ne, con la riforma del 1995, del metodo contributivo di calco­lo della pensione: puoi lavora­re anche 35 o 40 anni, ma nessu­no può dirti con certezza in quale rapporto la tua pensione sarà rispetto alla tua retribuzio­ne finale, giacché nella formu­la giocano due elementi di in­certezza: l’età al pensionamento (direttamente correlata con l’ammontare della pensione) e il tasso di crescita del Pil lungo l’intera vita lavorativa, adotta­to come rendimento da appli­care ai contributi versati.

 

 

 

Ma, ciò che più conta, il risul­tato è generalmente inferiore a quello che sarebbe stato con la formula precedente. E il peg­gioramento si è verificato so­prattutto per i giovani, perché a loro la formula “cattiva” si ap­plicherà integralmente, men­tre le generazioni anziane se ne sono salvate grazie alla len­tezza della transizione e quelle di mezzo ne soffriranno gli ef­fetti solo in parte.

 

 

 

Questo devono aver pensato il ministro Paolo Ferrero e gli al­tri esponenti della sinistra radi­cale quando hanno vibratamen­te chiesto al Governo di inseri­re, tra le modifiche al protocol­lo sul welfare (peraltro non ri­chieste dalla grande maggioran­za dei lavoratori, che ha invece espresso parere favorevole) la garanzia per i giovani di una pensione pari almeno al 60% della retribuzione (un piccolo segno di realismo anche da par­te loro: l’8o%, nelle circostanze attuali, sarebbe stato semplice­mente improponibile!).

 

 

 

Sono almeno tre le obiezioni che si possono fare a questa ri­chiesta di ritorno al “bel mondo antico”. Primo: a nessuno sfug­ge che l’introduzione di una ga­ranzia generalizzata per i giova­ni coincide, di fatto, con l’abban­dono del metodo contributivo e il ripristino della formula a beneficio definito.

 

 

 

Eppure quel metodo è stato istituito non già per punire i pensionati, ma per for­nire la migliore tra le garanzie possibili, os­sia la sostenibilità del sistema, minacciata proprio dal gioco delle promesse politi­che. Nel meccanismo della ripartizione si possono promettere molte cose: chi ne sopporterà l’onere è infatti molto giovani, e quindi ha scarsa rappresentanza politica in una società che invecchia, o addirit­tura non ancora nato, come in questo ca­so, trattandosi di garanzia offerta proprio ai giovani. Quindi i “garantiti” di oggi po­trebbero anche ringraziare (se non fosse­ro, come giovani, alquanto scettici sul lo­ro futuro, non soltanto pensionistico), mentre chi ne sopporterà l’onere domani non ha voce per protestare.

 

 

 

Secondo: i costi della garanzia non so­no soltanto quelli diretti, relativi agli esborsi che lo Stato dovrà sostenere per soddisfarla. Sono anche, e forse soprattut­to, quelli indiretti, dovuti alle distorsioni introdotte nel mercato del lavoro da for­mule pensionistiche che non si basano sul­la stretta corrispondenza tra contributi e prestazioni, come l’implicito incoraggia­mento all’evasione contributiva e l’incen­tivo al pensionamento appena raggiunti i requisiti minimi.

 

 

 

Terzo: com’è ovvio, il 60% di una retri­buzione alta è beripiù del 60% di una retri­buzione bassa. Tipicamente, sono alte le remunerazioni che corrispondono a maggiore capitale umano e a una maggiore di­namica nel corso della carriera lavorati­va, mentre sono basse, e più piatte, quelle delle persone con scarso capitale umano. Di fatto, la garanzia di un tasso di sostitu­zione finisce quindi per premiare i ricchi a scapito dei meno ricchi: una fattispecie che coincide né più né meno con la crea­zione di nuove situazioni di privilegio.

 

 

 

Se si vogliono evitare gli svantaggi del­la garanzia, senza perdere i benefici di una maggiore sicurezza economica nell’età anziana per i meno abbienti, non c’è che da percorrere la strada del contributivo per la generalità dei lavoratori, con inte­grazione, a carico del bilancio pubblico, della pensione di coloro che, avendo avu­to una vita di lavoro sfortunata, non sono riusciti ad accumulare risorse sufficienti a finanziare un adeguato livelli di consu­mi. Per essere efficace, ma non troppo distorsivo, né costoso, l’aiuto pubblico deve essere selettivo e non generalizzato.

 

 

 

Dietro la facciata della solidarietà, nella proposta della sinistra radicale si nascon­dono i vecchi vizi del disordine finanzia­rio italiano. Il Governo farebbe bene a ri­fiutarla a chiare lettere, a confermare il metodo contributivo per il futuro, e a ri­cordarsi che, una volta adottato tale meto­do, la miglior riforma del sistema pensio­nistico ancora da fare riguarda il mercato del lavoro. Se questo funziona, funzione­ranno anche le pensioni.