RADICALI ROMA

Il tramonto dei Dico

Nella sua replica al Senato Romano Prodi, affrontando il tema delle unioni di fatto, ha invocato la «libertà di coscienza». Libertà di coscienza per mettere al riparo il governo dal turbine di conflitti che la guerra dei Dico trascina inevitabilmente con sé e per depotenziare i contraccolpi su una maggioranza «autosufficiente» che, riguardo al riconoscimento delle coppie non consacrate dal matrimonio, semplicemente non esiste. Libertà di coscienza come sigillo di una derubricazione dei Dico a diatriba puramente parlamentare, nella quale il governo avrebbe «esaurito» il suo compito. Ma l’appello alla libertà di coscienza suona come un richiamo tardivo. E tutto lascia presumere che la questione delle unioni di fatto sarà il prossimo scoglio su cui la maggioranza rischia di incagliarsi (ancora una volta).

Il governo aveva infatti deliberatamente comunicato all’opinione pubblica l’idea che i Dico fossero una sua diretta emanazione. Ha delegato le ministre Bindi e Pollastrini a ratificare un testo che, frutto di un inevitabile ma non indecoroso compromesso, recasse ben visibile il timbro della maggioranza di governo. Ha suscitato appassionate aspettative in chi in quel disegno di legge ha salutato una tappa imprescindibile nella storia dei diritti civili, ma ha causato il «non possumus» di chi vi scorgeva un inammissibile attentato alla famiglia. Perciò i sostenitori e i detrattori dei Dico non hanno avuto dubbi nell’identificare la maggioranza di governo come l’architrave di quel progetto. E appare dunque problematica la trasposizione in chiave esclusivamente parlamentare di un provvedimento che si è caricato di significati politici cruciali.

Il governo avrebbe potuto agire diversamente, parlamentarizzando sin dall’inizio il percorso di una legge sulle unioni di fatto, sottraendo così la maggioranza governativa alle tempeste che inevitabilmente si accompagnano alle controversie riservate ai temi «eticamente sensibili». Avrebbe potuto rifarsi agli esempi del divorzio (promosso da una legge passata alla storia con il nome di due parlamentari, Fortuna e Baslini, «laici» ma non dello stesso schieramento) e della legge 194 sull’aborto, approvata nel maggio del 1978 con una maggioranza diversa da quella su cui contava il governo presieduto da Giulio Andreotti. Ha scelto invece la strada opposta. E ora sceglie di disfarsi dei Dico, sacrificandoli per arginare la controffensiva cattolica e tacitare i dissensi dell’ala governativa più insofferente a una regolamentazione delle coppie, etero e omosessuali. «Libertà di coscienza», con i numeri del Senato, equivale a un affossamento dei Dico. Dal fronte dell’opposizione non si intravedono soccorritori, e da quello della maggioranza (l’Udeur, i teo-dem della Margherita, Domenico Fisichella, Emilio Colombo) la libertà di coscienza equivale a un no secco alle coppie di fatto.

È così inevitabile che la frenata sui Dico appaia come una sconfitta lacerante, destinata a calamitare malumori e dissensi che non giovano alla stabilità di un governo già tanto vulnerabile. Il 10 marzo, a Roma, è prevista una manifestazione di protesta organizzata dall’Arcigay e che con ogni probabilità mobiliterà con spirito battagliero l’area «laicista» della maggioranza (ministri compresi?). E chissà che, sul piano simbolico, il 10 marzo romano non possa diventare per il governo un giorno difficile sul tema delle unioni di fatto tanto quanto la mobilitazione di Vicenza lo è stata sul tema, come si è visto delicatissimo, della politica estera. Le aspettative deluse alimentano frustrazioni profonde e rancori spesso velenosi, difficilmente sanabili con l’appello alla libertà di coscienza.