RADICALI ROMA

Le tentazioni della Cassa

  È possibile che il ministro dell’Economia sia faticosamente alla ricerca di 30 miliardi di euro con i quali far tornare i conti della legge finanziaria e negli stessi giorni i consiglieri del presidente del Consiglio pensino di spenderne 10 per acquistare un pezzo di Telecom Italia, e così consentire a qualche privato di rimborsare i propri debiti con i denari dello Stato? È una coincidenza curiosa e che desta stupore e incredulità nei cittadini. Questa incongruenza è possibile solo perché esiste la Cassa depositi e prestiti. È la Cassa la «madre di tutte le tentazioni ». Senza la Cassa il progetto di scorporo della Telecom ideato da Angelo Rovati e da altri collaboratori di Prodi non sarebbe stato neppure immaginabile.

 

 

 

Fino a qualche anno fa la Cassa — che è una specie di banca dello Stato — esercitava una sua tranquilla funzione: raccoglieva i risparmi delle famiglie presso gli sportelli postali e li usava per concedere mutui ai Comuni. Cinque anni fa Giulio Tremonti scoprì che i regolamenti europei non esigevano il consolidamento della Cassa nel bilancio dello Stato. Per ridurre il debito non era più necessario privatizzare imprese pubbliche: era sufficiente spostare le loro azioni dal bilancio dello Stato a quello della Cassa. Ed era anche possibile finanziare alcuni investimenti pubblici senza pesare sul bilancio: bastava chiedere alla Cassa di farsene carico. Evidentemente si trattava di illusioni contabili, pur legittimate da Bruxelles, e Tremonti le usò con disinvoltura. Con il tempo il risparmio postale non fu più sufficiente: Tremonti chiese alle Fondazioni bancarie di fare un prestito alla Cassa.

 

 

 

Con questi denari il ministero dell’Economia, padrone della Cassa, acquistò da se stesso azioni di Eni, Enel, Terna e StMicroelectronics, chiamandole privatizzazioni. In cambio le Fondazioni ebbero la garanzia di un buon rendimento (privo di rischio perché nella Cassa esse godono del diritto di recesso), qualche posto in consiglio di amministrazione e soprattutto la speranza che Tremonti abbandonasse la coraggiosa battaglia che da anni conduceva contro queste istituzioni. (L’aspetto poco elegante ed eticamente discutibile sta nel fatto che le risorse delle Fondazioni sono gestite da consigli di amministrazione autonominati, come se il loro patrimonio non fosse un bene pubblico). Due sono le implicazioni.

 

 

 

Ormai per privatizzare davvero Eni ed Enel non è più sufficiente una decisione del governo: bisogna convincere la Cassa, dove le Fondazioni contano molto. Inoltre, la nuova Cassa non è più una tranquilla istituzione priva di rischio: le sue passività sono titoli a reddito fisso, ma oggi i suoi investimenti sono, almeno in parte, azioni. Immagino che la Vigilanza della Banca d’Italia la terrà sotto osservazione. Dopo aver tuonato per cinque anni contro la finanza creativa di Giulio Tremonti, il governo dell’Unione non ha saputo resistere alla tentazione. Perché non ricorrere alla Cassa per statalizzare qualche impresa privata e difenderne così l’italianità? La Cassa non ha risorse sufficienti? Non è un problema: dopo le Fondazioni si può ricorrere alla nuova grande banca nazionale, Intesa- San Paolo, che non a caso Prodi chiama «la banca dello sviluppo».

 

 

 

Anche in questo caso basterà garantire un buon rendimento e nessun rischio, il tutto a carico dei contribuenti. Intanto il ministro dell’Economia fatica a trovare i soldi anche per finanziare la missione di pace in Libano.