RADICALI ROMA

Lo stadio della Roma e le tifoserie urbanistiche

Di Paolo Violi.

È una facile battuta dire che il progetto dello Stadio della Roma divide il dibattito pubblico in “tifoserie”. Però, volendo essere lucidi, bisogna riconoscere che su questo tema è cresciuta una tensione fuori luogo: toni da fine del mondo, interviste corsare rilasciate da un assessore che poi si dimette, enti locali e autorità che si smentiscono a vicenda.
La ragione è semplice e amara: in una città bloccata come Roma, è un miracolo che si faccia anche un solo progetto, e quindi tutte le visioni e le pulsioni sulla città si scagliano sull’unica proposta in gioco. Mi piacerebbe però che lo Stadio, oltre che ad animare il dibattito sul progetto, fosse pure la volta buona che ci sforziamo di affrontare un problema urbanistico enorme della nostra città: perché a Roma è così difficile fare le cose, e farle bene.

I nostri strumenti urbanistici sono improntati alla previsione e al controllo, come se potessimo plasmare l’assetto materiale di un territorio abitato da milioni di persone con la facilità di muovere dei pedoni su una scacchiera. Per fare un esempio significativo, vorrei chiarire un po’ meglio che cosa è il tanto citato Piano Regolatore Generale (PRG). Viene spesso evocato nel dibattito come una fonte molto autorevole, da cui è pericoloso discostarsi quasi fosse una specie di carta costituzionale. Ma quanti sanno davvero cosa è e come è fatto?

Il Piano Regolatore è uno strumento che stabilisce quanto e dove si può costruire, quanto e dove si può trasformare, quali usi dei suoli sono ammissibili, quali funzioni sono accettabili. In sostanza, è una previsione di assetto futuro. Sembra tutto molto semplice e logico, tant’è che il suo valore viene dato per scontato. Ma è proprio così? Proviamo a vedere con un esempio. L’evoluzione tecnologica sta rivoluzionando i nostri stili di vita, e il modo di produrre le cose. Immagino che nessuno si azzardi a fare previsioni su come sarà il modo di lavorare fra 5 o 10 anni, e solo un pazzo farebbe una legge che stabilisca oggi le regole per la produzione in futuro. Ora, perché invece diamo per scontato che qualcuno possa invece prevedere quanti uffici servano in una città, dove si possono fare, e in che modo? Non dobbiamo mai dimenticare che, quando si parla di urbanistica, ciò che regoliamo non è tanto la città fisica di palazzi e strade, ma la vita delle persone che la abitano.

Il Piano Regolare è in realtà uno strumento molto rigido, e il modo più probabile di fare previsioni corrette in un contesto così variabile è stabilire che non si faccia nulla. Una logica che possiamo toccare con mano, in una città come Roma. Se poi guardiamo alla legge che istituisce il PRG, capiamo tutto: è la L. 1150/1942. Eh sì, 1942. Legge approvata da Senato e Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Pur volendo mettere da parte (con difficoltà, ammetto) il giudizio negativo sui valori che ispirano questa legge, ma davvero aree metropolitane abitate da milioni di persone, nel mondo veloce e complesso del XXI secolo, possono affidarsi credibilmente a questo strumento?

La risposta è chiaramente no. La procedura di approvazione del progetto Stadio della Roma fa infatti affidamento proprio a due innovazioni pensate per superare queste rigidità: la Conferenza dei servizi, e la Legge sugli Stadi. La Conferenza è un tavolo a cui partecipano tutti gli Enti che devono dare l’assenso a un progetto, e serve a evitare la procedura penitenziale, e potenzialmente eterna, di andare a bussare alla porta di ogni ente separatamente. La Legge sugli Stadi è stata istituita da poco, e crea una corsia preferenziale per il recupero urbano degli impianti sportivi (demolizione e ricostruzione), un’operazione quasi proibitiva per via ordinaria.

La cosa grave, secondo me, è che nonostante la consapevolezza nelle istituzioni di un assetto insostenibile che promuove la paralisi urbana, da cui non può che nascere degrado, manca ogni discussione pubblica sulla necessità di dotarsi di strumenti nuovi. Ci accapigliamo se lo Stadio va fatto con un taglio del 20% delle cubature, del 40% o di una torre e un terzo. Continuiamo a non voler vedere che, a furia di parlare di dettagli e quantità edilizie, manteniamo inalterato uno stato di cose votato a un’impasse eterna.

Io spero che, in qualche modo, lo Stadio si possa fare, e si possa fare bene, con qualità. Spero anche però che possiamo uscire da questa vicenda con un tema politico in più: le dinamiche di un mondo inedito richiedono nuove visioni e nuovi strumenti. Non per una generica modernità, ma per essere più aderenti ai bisogni delle nostre vite.