RADICALI ROMA

Lotta dura agli sprechi e ai privilegi

Era più che fondata l’aspra polemica tra il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa e l’economista, ed editorialista del Corriere, Francesco Giavazzi, che in due editoriali, il 19 e il 23 agosto, accusava il governo, e in particolare il ministro dell’Economia, di essere reticente, incerto e troppo poco coraggioso “sul contenuto delle grandi riforme auspicate nel Dpef”. Giavazzi sottolineava la necessità di “aiutare la domanda interna, e soprattutto gli investimenti, tagliando le tasse”. Ma “per ridurre le tasse senza far crescere il debito – aggiungeva – occorre evidentemente tagliare le spese… il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, non aiuta quando, come in un recente dibattito con il presidente di Confindustria, ripete “non voglio sentir parlare di tagli!”” Ciò che manca a questo governo è la determinazione a tagliare la spesa, anche se un giorno sì e l’altro pure ricorda a noi – che lo sappiamo benissimo – l’esigenza di farlo. All’indomani delle elezioni rintracciavamo in Padoa-Schioppa gli unici anticorpi di serietà e responsabilità di questo governo. Trascorsi cento giorni dobbiamo constatare che finora proprio Padoa Schioppa, il cui compito era quello di dimostrarsi ministro decisionista e intransigente, ci ha delusi, come quel campione capace di infiammare i tifosi durante il calciomercato ma che dopo le prime partite è ancora a secco di gol. Il ministro è debole e incerto, politicamente nullo. Si contraddice, spesso nello stesso intervento pubblico.

“Un’analisi condivisibile”. Così definì un rapporto della Corte dei Conti che individuava nella spesa corrente delle pubbliche amministrazioni, e in particolare negli stipendi dei dipendenti pubblici, la parte più consistente del problema. Come poteva, poco dopo, dire “Niente tagli”? “Bisogna fermare questa dinamica di spesa. Intervenire è possibile, esistono margini tecnici. Magari non ci sono margini politici”. Bella dichiarazione d’impotenza e subalternità. Anche sulle pensioni, la coppia Prodi-Schioppa insiste sulla necessità di proseguire nelle riforme, ma il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, vorrebbe invece ridurre a 58 anni l’età minima di pensionamento. Giavazzi ha ragione da vendere quando lamenta che a meno di un mese dalla presentazione della Legge finanziaria “sul contenuto delle grandi riforme auspicate nel Dpef ancor nulla si sa”. E quando chiede: “E’ lecito esprimere perplessità e auspicare un’iniziativa politica più risoluta ed incisiva? E’ lecito esprimere il dubbio che il ministro dell’Economia non abbia un programma forte e che i tempi lunghi che egli auspica non siano compatibili con l’urgenza che egli stesso ha dichiarato?”. Per ridurre la spesa occorre partire dai dipendenti pubblici. Dunque, non tagli ai servizi e agli investimenti pubblici – per ora – ma razionalizzazione della burocrazia. Crediamo, insomma, che Pietro Ichino abbia individuato l’obiettivo: smaltire i fannulloni. Dall’ultimo sondaggio d’opinione, condotto da Mannheimer, pare che gli italiani siano in ampia maggioranza d’accordo. Tuttavia, Ichino parla di commissioni indipendenti per individuare i nullafacenti. Piuttosto, occorre introdurre il concetto di libertà di licenziamento, innanzitutto nel pubblico impiego.

E’ un principio basilare di moralità pubblica a suggerircelo: laddove è il denaro della comunità a essere speso, e le tasse anche dei ceti meno abbienti, gli sprechi devono essere minimizzati. Dunque, i dipendenti pubblici devono rispondere ai massimi criteri di efficienza. Questo significa che occorre trasformare completamente l’organizzazione della pubblica amministrazione. La catena di responsabilità dal più alto all’ultimo dei dirigenti dev’essere ben definita. Ciascuno responsabile dell’efficienza del suo settore e ciascuno libero di licenziare e passibile di essere licenziato. Occorre però sapere che il vero colpo alla spesa pubblica lo darebbe un’altra riforma, che – bisogna dargliene atto – Pannella con le sue proposte referendarie propone da decenni: l’abolizione del sostituto d’imposta. Far cessare la discriminazione tuttora vigente tra il contribuente-lavoratore autonomo e il contribuente-lavoratore dipendente. La riforma avrebbe un duplice effetto. Da una parte quello di “affamare la bestia”: lo Stato si vedrebbe costretto a ridurre le spese non potendo più fare automatico affidamento su una somma certa di entrate nelle sue casse. Dall’altra, anche i lavoratori dipendenti avrebbero la netta percezione, nelle loro tasche, di quanto lo Stato e i servizi che offre costano, rendendoli più consapevoli della necessità di ridurre la spesa e riformare le pensioni.

La battaglia di Capezzone è di certo “sacrosanta”, ma né “disperata” né “perdente”. Semplicemente da giocare, anche se in salita. Per poter svolgere un ruolo di contrappeso rispetto alle spinte delle corporazioni, dei sindacati più conservatori, e dell’”ultrasinistra” corporativa – che sul Riformista, mesi fa, Biagio De Giovanni non ha esitato a definire “reazionaria” – servirebbe, nella maggioranza, un gruppo numericamente consistente di parlamentari disposti a far cadere il governo se entro la fine dell’anno non fossero centrati i più importanti obiettivi di riforma. E ci aspettiamo che la Rosa nel Pugno possa fungere da “catalizzatore”. Per inciso, diciamo che il centrodestra non promette di meglio. L’involuzione, anche in politica economica, è sempre più marcata. In campagna elettorale l’unica proposta di politica sociale, da entrambe le parti, è stata quella di aumentare le pensioni. Oggi, la critica all’operato del governo è affidata all’anti-mercatista Tremonti, che invece di sfidare Prodi e Padoa Schioppa sul campo del coraggio riformatore preferisce fare terrorismo sulle pensioni. Insomma, ci si insegue nel cercare di conquistare il partito dei pensionati. La crisi del sistema pensionistico è emblematica del carattere generazionale della più grande questione sociale che oggi attraversa il nostro paese: la mancanza di ricambio e del merito nelle università, nel lavoro, nelle professioni, nella politica. La responsabilità politica – ed è il caso di dirlo, morale – della nostra vecchia classe dirigente è delle più gravi. Non ha assolto uno dei principali compiti della leadership di un paese: immaginare, programmare, non ipotecare il futuro dei suoi figli. Invece, attingendo a piene mani alla spesa pubblica, ha garantito per sé un tenore di vita al di sopra delle possibilità reali, scaricando sulle spalle delle generazioni future l’onere dei debiti contratti. Lotta dura alle rendite, dunque.

Sì, perché oggi percepire una pensione a sessant’anni è una rendita. I 4,9 milioni di pensionati tra i 40 e i 64 anni, sugli oltre 16 milioni totali, sono a tutti gli effetti dei titolari di rendite, scriveva correttamente Oscar Giannino. Subito abolizione della pensione d’anzianità (con l’eccezione dei lavori usuranti) ed età minima a 65 anni. Mesi fa, Tito Boeri affrontava sulla Stampa il tema del “conflitto intergenerazionale”, lanciando un allarme: “La posizione relativa dei giovani nella distribuzione dei redditi in Italia sta peggiorando”: “La povertà tra chi è senza lavoro parla sempre più giovane ed è nelle classi di età più basse che è concentrato il fenomeno dei working poor. Hanno oggi una volatilità dei loro redditi fino a 5 o 6 volte superiore a quella delle generazioni che li hanno preceduti quando avevano la loro età. Non pochi dei giovani lavoratori di oggi potranno, dopo aver lavorato 40 anni, ricevere pensioni di poco più di 400 euro al mese, al di sotto della linea della povertà assoluta”. Questo perché “il nostro sistema è notoriamente squilibrato a favore di chi oggi riceve una pensione (due terzi della spesa sociale sono destinati a questa funzione), magari a 57 anni e con l’aspettativa di vivere per altri 25-30 anni”. Un’in
tera generazione non può più aspettare. Se non verranno per tempo introdotte le riforme e le liberalizzazioni necessarie, in grado di valorizzare il talento individuale, la generazione fra i 30 e i 40 anni d’età rischia di sparire in un enorme buco nero. Gli obiettivi di crescita economica, mobilità sociale, e servizi di qualità, richiedono l’approccio liberale e blairiano dell’Enabling State. Lo Stato che abilita, accresce le facoltà e le opportunità degli individui secondo l’inscindibile binomio libertà/responsabilità e rende i cittadini capaci di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori. “Possiamo creare delle opportunità, ma non possiamo gestire le vite o gli affari delle persone”, è il motto di Tony Blair.