Al contrario di quanto si sotiene, la scarsità dei fondi non ne è l’unica causa, e forse neanche la principale.
Scrive Roberto Perotti in un articolo su LaVoce.info intitolato “Per una riforma radicale dell’università italiana”: “Come ho mostrato in un recente lavoro, i docenti italiani non sono in media meno pagati dei loro colleghi inglesi (si veda Tabella 1); né hanno più studenti da seguire, una volta che si tenga conto che molti studenti italiani non frequentano (si veda Tabella 2). In compenso, sono molto meno produttivi in termini di ricerca (si veda Tabella 3): né potrebbe essere altrimenti, visti i criteri con cui vengono promossi (esempi di questi criteri si possono trovare nel mio Bollettino dei Concorsi: si notino casi particolarmente interessanti di recenti concorsi a professore ordinario in Economia a Roma La Sapienza, Roma III, Napoli Parthenope, Parma, per citarne solo alcuni). Gettare più fondi in questo sistema sarebbe inutile.”
La selezione di docenti si basa su meccanismi clientelari
Secondo i dati del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario pubblicati recentemente, tra il 1999 e il 2002 si sono conclusi 10.852 concorsi. Tra i professori ordinari, il 90,4% dei vincitori proveniva dallo stesso ateneo, cioè ricopriva la posizione di professore associato (la posizione contrattuale precendente al passagio in ruolo come professore ordinario) nello stesso ateneo prima del concorso. Per gli associati la percentuale scendeva al 76%.
Dal 1998 sono i singoli atenei a bandire i concorsi per reclutare docenti. Il concorso locale ha due difetti gravissimi. “In primo luogo, garantisce un forte privilegio al candidato appartenente all’università che bandisce il concorso, alla quale compete la nomina di uno dei membri della commissione; è rarissimo, infatti, che il “candidato interno” risulti perdente; l’unico dato incerto, quando è incerto, è il nome del secondo vincitore, destinato a essere chiamato altrove. Inoltre, il nuovo sistema prevede l’elezione di tante commissioni quanti sono i concorsi banditi dagli atenei: ciò che comporta un gran numero di voti e di candidature, con corrispondente enorme lavorio elettorale (praticamente ininterrotto: le “tornate” elettorali sono due, tre, persino quattro all’anno), seguito da giochi estremamente complessi tra le commissioni di concorsi diversi cui partecipano contemporaneamente gli stessi candidati. E poiché per questo lavorio elettorale e post-elettorale sono normalmente più disponibili i professori che si dedicano meno intensamente alla ricerca e all’insegnamento, il sistema presenta un alto rischio di favorire nettamente gli interessi di questi ultimi rispetto a quelli dei professori migliori.”
Vedi: Piero Ichino: “Il concorso? Meglio nazionale”
L’aumento dello stipendio è legato soltanto all’anzianità
Al contrario degli Stati Uniti, dove il salario è contrattato dall’università con il singolo docente, in base alle sue capacità, in Italia la progressione retributiva dei docenti universitari è legata soltanto alla progressione di ruolo legata di fatto quasi esclusivamente all’anzianità. All’interno di ciascuna categoria di docenza (Ricercatore, Associato, Ordinario), la produttività è completamente irrilevante per la determinazione del salario. Le analisi di Daniele Checchi (1999) di Roberto Perotti (2002) mostrano chiaramente che il numero di pubblicazioni ha un’influenza marginale nelle decisioni di promozione di categoria
Un’università di classe
L’università italiana è caratterizzata da un altissimo tasso di abbandoni. Circa il 60% degli immatricolati al primo anno non arriva alla laurea. Chi si laurea lo fa ad un’età molto alta rispetto agli standard europei: circa 28 anni. L’Italia ha il 10,9% della popolazione tra i 15 e i 64 anni che ha concluso gli studi superiori, contro una media europea del 21,22%. Il sistema dei crediti e la divisione tra laurea e laurea specialistica (il famoso 3+2) introdotti dalla recente riforma ha certamente diminuito gli abbandoni (qualche anno fa il tasso di abbandono rasentava l’80%), ma a scapito della qualità.
Non c’è mobilità ne competizione all’interno degli atenei italiani. Gli studenti non hanno alcuna influenza sulla qualità della didattica, dato che non possono “votare con i propri portafogli”. Un decreto del ’97 prevede che le università non possano finanziarsi attraverso le rette pagate dagli studenti per più del 20% dell’importo versato dallo Stato. Un limite che compromette anche i servizi che le università sono in grado di fornire. Come ad esempio gli alloggi per gli studenti. Ce ne sono 29mila in tutto in Italia, contro i 150mila della Francia e i 223mila della Germania.
L’argomento contro cui si scontra ogni tentativo di aumentare la quota dei finanziamenti dell’università provenienti dagli studenti è che questo violerebbe il diritto alla studio dei meno abbienti. Tuttavia, secondo uno studio di Andrea Ichino, Daniele Checci e Aldo Rustichini, in Italia il reddito della famiglia di origine è un fattore più importante, nel determinare il successo professionale dei giovani, di quanto non lo sia negli Stati Uniti, dove le università sono private.
L’università uguale per tutti non promuove mobilità sociale, ma riproduce e rafforza le diseguaglianze di partenza. D’altronde un possibile rimedio per non escludere i meno abbienti pur aumentando le rette universitarie a carico degli studenti è quello adottato in Australia e riprodotto nel provvedimento di Blair. Un altro è quello proposto da Francesco Giavazzi: rendere le tasse di iscrizioni proporzionali al reddito.
La puntata dell’inchiesta Profondo Italia dedicata all’unversità
Il modello Blair
Nel 2003 il governo Blair ha rischiato di andare in minoranza al parlamento per una coraggiosa proposta di riforma dell’università.
Sulla proposta di consentire alle università l’innalzamento delle tasse di iscrizione a carico degli studenti fino a 3.000 sterline (il tetto massimo era 1.125) Blair dovette far fronta all’opposizione interna al suo stesso partito verso un provvedimento che, sostenevano i 150 deputati laburisti firmatari di una mozione contraria, non era stato inserito nel programma elettorale e che avrebbe creato una discriminazione tra gli studenti sulla base del reddito. I più abbienti potranno inscriversi alle università migliori, che potranno aumentare le tasse di iscrizione, i più poveri usufruiranno di un’offerta didattica di scarsa qualità.
Il provvedimento su cui Blari ha messo in gioco, vincendo, la sua leadership, prevedeva in realtà per gli studenti meno abbienti “prestiti d’onore” (a bassissimi interessi) che gli studenti restituiscono una volta inseriti nel mondo del lavoro. Un sistema preso “in prestito” dalla legislazione australiana.
Il provvedimento di Blair era motivato dalla necessità di modernizzare le università inglesi adeguandole alla trasformazione delle esigenze formative della popol
azione. Con l’accesso di massa all’università, infatti, il binomio quantità/qualità è entrato in crisi. Le università inglesi non riescono a concorrere con quelle americane sul terreno della ricerca a causa della mancanza di fondi adeguati. Allo stesso tempo, l’uniformità nell’offerta didattica non equivale a garantire uguali chance a tutti gli studenti. Non tutti, infatti, hanno le stesse esigenze formative e in un mondo in cui la flessibilità è sempre più la regola, le università dovrebbero adeguarsi. Questa è la lezione che viene dagli Stati Uniti. Dove coesiste qualità e quantità. Negli Stati Uniti, infatti, non solo si trovano ben 35 delle 50 migliori università del mondo, ma più del 60% dei diplomati segue corsi di tipo universitario. La chiave del successo del sistema americano è la diversificazione dei percorsi. Al primo gradino della piramide del sistema universitario americano ci sono i “community college”, che offrono una formazione a basso costo, flessibile e orientata al lavoro. In cima le prestigiose università della Ivy League.
I documenti del governo Blair sulla riforma universitaria
Proposte di riforma
“(i) Salari individuali liberi e differenziati. Ogni università deve poter offrire un salario più alto a chi fa buona ricerca, indipendentemente dall’ età. In questo momento in alcune università i salari dei docenti sono integrati da premi alla ricerca, ma si tratta di bruscolini: i salari italiani sono di fatto determinati dalla anzianità.
(ii) Ovviamente questo sistema funziona solo se le università sono costrette a guadagnarsi faticosamente i fondi con cui pagare i salari. Ciò può avvenire in due modi. I fondi ricevuti da ogni università devono dipendere dalla qualità della ricerca che essa esprime. La quota dipendente dalla ricerca deve essere consistente, almeno il 30 o 40 percento dei fondi totali; il processo deve essere brutale, cioè escludere le università di bassa qualità; e deve essere credibile, affidandosi per esempio a esperti stranieri per valutare la ricerca. Un sistema con caratteristiche simili funziona egregiamente in Gran Bretagna. Per sgombrare il campo da equivoci: niente di tutto questo avviene in Italia. Si è parlato molto sui giornali italiani delle università italiane premiate dai fondi di ricerca: in realtà, i fondi così allocati sono noccioline, e i criteri utilizzati ambigui. (2)
(iii) Il secondo modo per fare sudare alle università i loro fondi è di mettere gli studenti in grado di “votare con il loro portafogli”. Se gli studenti fossero costretti a pagare di più, porrebbero ulteriore pressione sulle università a competere su ricerca e insegnamento. Ma come attuare questo senza sfavorire i meno abbienti? Un possibile metodo è una variante di quello adottato in Australia. Esso prevede prestiti a studenti con ammontare e restituzione graduata: i meno abbienti ricevono un prestito più alto, e l’ ammontare restituito dipende dal reddito dopo la laurea.
(iv) A sua volta, perché questo sistema funzioni, ogni università deve poter assumere chi vuole, senza concorsi. Non più discussioni infinite se sia meglio il concorso a livello di sede universitaria, e se con uno o due idonei, o il ritorno al mega concorso nazionale: entrambi sono strumenti straordinariamente inefficienti di allocazione delle risorse intellettuali. Non più diatribe a non finire se un professore si meritava il posto o no: anzi, nel nuovo sistema l’università X sarà molto contenta se l’università Y promuove un ignorante, perché così facendo Y perde prestigio, fondi e studenti a favore di X.
(v) Ma finché la laurea ha valore legale, la corporazione dei professori ha il diritto/dovere di controllare che i loro futuri colleghi abbiano i “requisiti necessari” per rilasciarla: questa è la funzione legale dei concorsi. Per abolire i concorsi è quindi necessario abolire il valore legale del titolo di studio. Questa sarà una battaglia difficile. Le corporazioni professionali non sono disposte a rinunciare alla chiave del loro potere: e non a caso la questione non era nemmeno sul tavolo di discussione nella commissione Moratti.
(vi) Una seconda condizione necessaria perché il sistema descritto sopra funzioni è la libertà didattica: ogni università deve poter organizzare i propri corsi come vuole.Niente più diatribe infinite su quale sia il sistema migliore che tutte le università italiane devono adottare: se il 3+2, il 4+1 o 4+3+1+2 di Trapattoni. Ognuno fa quello che vuole, e vinca il migliore. Niente più polemiche sul proliferare di corsi dal titolo (e dal contenuto) surreale: tanto meglio per le università concorrenti. E niente più convegni del CRUI e del CNVSU su come valutare la didattica e confrontare un insegnante di veterinaria di Udine con uno di lettere classiche di Catania: ovviamente non si può fare, ma la buona notizia è che non è necessario.
Si noti la caratteristica cruciale del sistema che ho descritto: ogni università porta le conseguenze delle decisioni che prende. Se un gruppo di baroni nomina professore il figlio del collega (succede ancora) l’ università perde prestigio, fondi legati alla ricerca, studenti e quindi fondi legati agli studenti, Alla fine l’università sarà costretta ad accettare un ridimensionamento, o la scomparsa. Questo è salutare darwinismo accademico: non sta scritto da nessuna parte che tutte le università debbano essere uguali. Alcune sono peggiori di altre, e in casi estremi devono essere lasciate morire.”
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi:
“È ovvio cosa va fatto: basta guardare a Barcellona e imparare da Andreu Mas-Colell. Messo a capo di università e ricerca dal governo della Catalogna, ha puntato tutto su istituzioni nuove: Pompeu Fabra, un’università creata nel 1990, e una serie di istituti di ricerca che fanno dell’ex zona olimpica di Barcellona uno dei “parchi” scientifici più promettenti d’Europa. Nel nostro piccolo, è stato così anche con l’Igier: se dodici anni fa avessimo ceduto alle pressioni di chi, nell’università Bocconi, non voleva che nascesse come istituto indipendente, oggi l’Igier sarebbe morto da tempo. E invece è l’unico istituto italiano di economia sulla mappa internazionale.
Anziché imparare da Mas-Colell, ci si ostina a rincorrere l’illusione che sia possibile migliorare l’esistente.”