RADICALI ROMA

Quando è lo Stato a violare la legge

  Un tempo solo famiglie e imprese eludevano o evadevano le norme del nostro Paese, manifestando co­sì la loro duplice insoddisfazio­ne per la scarsa qualità dei servi­zi pubblici e insieme per l’ecces­so del loro costo in termini di prelievo fiscale. Con una strate­gia tesa a pagare meno tasse, ma rischiosa perché onerosa se scoperta e molto raramente condonata. Lo Stato, al contra­rio, produceva le norme, le se­guiva costringendo altri (talvol­ta senza successo) a farlo e quando non le gradiva più, so­craticamente le cambiava.

 

 

 

Ormai, invece, stiamo assi­stendo sempre più spesso a epi­sodi di dimenticanza e aggira­mento dello spirito, se non del­la lettera delle leggi, da parte del settore pubblico, che non so­lo sono impunemente tollerati dai vertici politici, ma talora vengono perfino nei fatti o nel­le aspettative successivamente premiati, sebbene comportino aggravamenti di bilancio.

 

 

 

Due esempi. Giovedì scorso il responsabile dell’Ispettorato per gli ordinamenti del persona­le, Giuseppe Lucibello, che fa capo alla Ragioneria generale, in un’audizione alla Camera ha spiegato che l’elevato incre­mento degli ultimi anni nel nu­mero dei lavoratori pubblici senza contratto a tempo inde­terminato, attualmente ecce­dente il mezzo milione, dipen­de dal fatto che le assunzioni au­torizzate sono state all’epoca in­feriori ai posti vacanti nell’orga­nico. In sostanza, i parziali vin­coli sul turnover nel pubblico impiego, costantemente dispo­sti nelle due passate legislature per contribuire al risanamento finanziario, sono stati sistemati­camente elusi attraverso il ri­corso al lavoro flessibile e atipi­co, gonfiando il deficit. Tale comportamento non propriamente virtuoso delle amministrazioni pubbliche, lungi dal venir sanzionato, quello stesso giovedì risultava condonato dal memorandum d’intesa sul lavoro pubblico si­glato dai ministri della Funzio­ne Pubblica e dell’Economia e dai sindacati, in quanto in esso si stabilisce «nel breve termi­ne il precariato esistente che si è sedimentato in modo disordi­nato con il blocco delle assun­zioni,- sarà assorbito secondo le modalità e le risorse previ­ste dalla Finanziaria 2007 (fino a) portare alla scomparsa del precariato».

 

 

 

Il riferimento è ai commi 417-420 di tale testo, dove si istituisce un Fondo per la stabilizzazione dei precari del settore pubblico, da alimen­tarsi con il risparmio degli in­teressi derivanti dalla riduzio­ne del debito pubblico, quin­di con effetti espansivi sul di­savanzo, e con un 20% dei conti dormienti del sistema bancario, tramite dunque una sorta di entrata straordinaria per usucapione.

 

 

 

Un paio di giorni prima, du­rante un dibattito televisivo in cui erano presenti il vice­premier e ministro degli Este­ri, l’ex titolare del dicastero dell’Economia e due leader delle opposte parti sociali si­curamente mai tacciati di buonismo, si è assistito a un raro coro unanime di voci concordi nell’asserire la non urgenza della modifica dei co­efficienti di trasformazione e più in generale della riforma pensionistica. Come se la leg­ge Dini del 1995 non avesse ri­chiesto proprio a quell’ex mi­nistro fin dal 2005, così come all’attuale, di concerto con il ministro del Lavoro, precisa­mente di «rideterminare ogni 10 anni il coefficiente di trasformazione».

 

 

 

Certo il termine decennale è ordinativo, non prescritti­vo, e tuttavia la scadenza del 31 marzo 2007, fissata solo po­chi mesi fa dall’intesa Gover­no-sindacati quale data ulti­ma per chiudere il tavolo sul­le pensioni, è adesso slittata in avanti. L’ulteriore omissione di legge accresce gli esborsi pubblici, ma la coalizione di maggioranza si attende un premio politico, sotto forma di una migliore performance elettorale nelle prossime am­ministrative, nell’ipotesi che

 

la gran parte degli italiani non voglia revisioni del sistema previdenziale. Eppure, come il sondaggio di Renato Mannheimer del 16 gennaio mo­stra, il 41% dei nostri conna­zionali sa che la riforma del­le pensioni «deve essere af­frontata al più presto» e un altro 38% la ritiene «impor­tante», anche se non ne rico­nosce la priorità.

 

 

 

Forse nel Paese sta emer­gendo la sindrome di quelli che affermano: non vorrei mai entrare in un club esclusi­vo che desiderasse me come membro. In tali situazioni si al­larga l’area della sfiducia nel­la classe politica, se essa non realizza quel che l’elettorato non desidera ma della cui ne­cessità è oscuramente consa­pevole. Con la conseguenza, depressiva per l’economia e prevista dalla teoria neoricardiana, che la popolazione con­trae le spese e aumenta i ri­sparmi quanto più lo Stato si indebita, perché comprende che alle maggiori uscite pub­bliche attuali si dovrà o prima o dopo far fronte con superio­ri imposte. È augurabile che l’attuale leadership sia in gra­do di assolvere a un compito così complesso.