RADICALI ROMA

Socialisti, parlate adesso o tacete per sempre

Dovessimo scommettere oggi, diremmo, assumendoci un rischio notevole, che il Partito democratico, in un modo o nell’altro, si farà. Tutto sta, però, nello stabilire in che modo. E in questa impresa i tre interventi paralleli dei suoi più autorevoli sostenitori (Piero Fassino sull’Unità, Massimo D’Alema su Repubblica, Francesco Rutelli sul Corriere) ci aiutano sì, ma fino a un certo punto. Dalle loro parole esce ben chiaro, infatti, perché considerano la formazione del Partito democratico un compito decisivo e anche relativamente urgente, nel senso che vogliono fare di tutto per vederlo in campo nelle elezioni europee del 2009: ulteriori rinvii sarebbero forse pericolosi per le sorti di governo e maggioranza, di certo letali non solo per il futuro del partito in questione, ma anche per quello dei gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita che, dopo vari e alterni tentennamenti, su questa prospettiva hanno finito per puntare tutto o quasi. Meno chiari, invece, continuano a risultare, almeno ai nostri occhi, i rimedi escogitati da un lato per superare le persistenti resistenze (spesso passive, ma sempre più frequentemente anche attive) che un simile disegno incontra in zone relativamente ampie degli stessi riformisti del centrosinistra; dall’altro per accendere, pure fuori del ceto politico professionale o semiprofessionale, quell’interesse e, diciamolo pure, quella passione democratica e civile nella persistente latitanza dei quali è ben difficile immaginare che il progetto democrat possa prendere corpo. Almeno se il progetto in questione ha l’ambizione di dare vita a un soggetto politico a vocazione maggioritaria, e non solo di sommare due debolezze nella speranza che, mettendole insieme, assomiglino a qualcosa di simile a una forza.
Se è di una grande ambizione che stiamo parlando, allora è di un confronto aperto e, perché no, duro che c’è bisogno. Di un confronto il cui esito non può essere stabilito in partenza, e che deve investire senza reticenze anche molte questioni in questi anni rimosse, o più prosaicamente nascoste sotto il tappeto. Una, su tutte, ci sta a cuore, e va sotto il nome di questione socialista. O, se preferite, di questione del socialismo. Nel senso del socialismo europeo, si capisce, ma pure del socialismo italiano. Perché è impossibile venire a capo del problema della collocazione internazionale (sempre che da una parte non ci si limiti ad osservare che, grosso modo, tutti i riformisti europei sono nel Pse o gravitano da quelle parti, e dall’altra, come ha detto Rutelli, che il Pse è un interlocutore importante, ci mancherebbe, ma lo sono anche i democratici americani e il Partito del Congresso indiano) se non si discute apertamente su che cosa dovrebbe avere a che spartire, il nuovo partito, con il socialismo italiano, e cioè con qualcosa che, nella sinistra e nel centrosinistra di questo paese, un suo peso ce l’ha, forse persino superiore a quello dei teodem.
Può darsi che esageri, Peppino Caldarola, quando scrive su questo giornale di un revival socialista. Di certo, la parola socialismo non è più una parola impronunciabile e maledetta. Quelli del correntone (tutta gente che quindici anni fa, contro l’idea di un esito socialista della lunga crisi del Pci era disposta a tutto) quasi portano in trionfo Giovanni Pieraccini, Fausto Bertinotti riscopre, conversando con il direttore del Riformista, l’attualità di Riccardo Lombardi. Non va bene: va benissimo, tanto di guadagnato per tutti se la nostra sinistra cosiddetta radicale, cosiddetta antagonista, cercasse, magari con qualche approssimazione, di prendere le fattezze di quella, che sotto ogni altro cielo europeo, sarebbe una sinistra socialdemocratica. Ma è l’altro socialismo, il socialismo riformista, il socialismo liberale, il socialismo di governo, la destra socialista, se volete, che sta nei Ds come nella Rosa (ormai alla stregua di un separato in casa) come nei partitini e nei gruppi della diaspora, di cui fatichiamo, proprio adesso che la sua storia non è più tabù, a sentire la voce. Credono, questi riformisti, che sia possibile imprimere un loro segno al partito nascituro? O immaginano piuttosto che ci sia di nuovo spazio e campo (i socialisti in Italia hanno sette vite come i gatti) per un’autonoma presenza politica ed elettorale socialista? Di questo, più che delle mille e una forme possibili di una loro stentata sopravvivenza di ceto nel prossimo futuro, piacerebbe sentirli apertamente discutere. Verrebbe da dire: parlino adesso, o tacciano per sempre.