RADICALI ROMA

Vi spiego i ritocchi al patto del Welfare

  Caro direttore, oggi avrei voluto occuparmi solo del Partito democratico, del significato che questo 14 ottobre ha e avrà per la storia politica del Paese e avrei voluto, come si di­ce, “godermi la festa” perché do­po dodici anni, si porta a compimento un progetto nel quale ho fermamente creduto, per il qua­le ho lottato, nel quale ho tanto investito.

 

 

 

Essere a capo di un governo, tuttavia, implica onori ed oneri e, tra questi ultimi,anche l’onere di spiegare e motivare, anche in giorni di festa, le decisioni dell’e­secutivo.

 

 

 

Prendendo spunto dall’anali­si, come sempre approfondita e sostanzialmente condivisibile, di Eugenio Scalfari in primis, ma anche dalle interviste dei leader sindacali e da alcuni commenti, sono pronto a spiegare cosa ha deciso il governo sul tema Welfa­re con le deliberazioni prese – con una votazione positiva, che è andata ben al di là delle funeste previsioni di tanti – nella riunio­ne del Consiglio dei ministri del 12 ottobre.

 

 

 

Prima di tutto intendo sgom­berare il campo da tutte quelle critiche pretestuose che voglio­no far intendere che ci sarebbero stati “cedimenti” a una delle componenti della maggioranza.

 

 

 

Leggo, appunto, di cedimenti, prezzi pagati, pedaggi. Queste sono analisi che non esito a definire faziose e che sono oggettivamente aprioristiche. Sono analisi che leggiamo da mesi e che non potendo accusare il go­verno di gravi errori (perché fi­nora l’economia risponde bene alle decisioni prese) ripetono da oltre un anno, come in un ritor­nello, l’accusa al governo di essere vittima degli estremisti ra­dicali.

 

 

 

Essi non salgono in cattedra per spiegare, ma solo per accu­sare senza mai mettere in rilievo la differenza tra i risultati delle decisioni prese nei 17 mesi di questo governo rispetto ai cin­que anni del governo preceden­te.

 

 

 

Il nostro è un governo che sta affrontando una sfida straordi­naria al servizio del Paese e che ha imparato a lavorare in modo coeso e unito.

 

 

 

E’ un governo che ha sempre visto confermata la propria maggioranza in Parlamento,pur avendo preso decisioni corag­giose, e spesso scomode, in cam­po economico, politico e sociale.

 

 

 

Nessun “cedimento” quindi e tanto meno in questa occasione.

 

 

 

Quanto alle critiche “biparti-san” delle parti sociali, sarebbe semplicistico limitarsi a dire che qualche scontento sia da parte degli imprenditori sia da parte dei lavoratori testimonia dell’equilibrio e della saggezza del te­sto messo a punto dal governo. Le critiche non tengono sempli-cemente conto del fatto che il go­verno ha dovuto compiere un la­voro complesso per tradurre un “accordo politico” (quello del protocollo del 23 luglio) in un “disegno di legge”, formulato nel rispetto delle esigenze della formula legislativa e sempre te­nendo presenti le doverose co­perture finanziarie. La traduzio­ne dal linguaggio evocativo e for­zatamente, in alcuni aspetti, non dettagliato dell’accordo nel linguaggio asciutto e compiuto delle norme e dei numeri può creare qualche perplessità, ma il governo non poteva esimersi dal fare questo lavoro di traduzione per inviare il disegno di legge al­le Camere. Così come non pote­va, nel corso della riedizione del testo, non tenere conto di adat­tamenti richiesti dagli uffici legi­slativi. Si tratta, e non mi stan­cherò mai di ripeterlo, di varia­zioni marginali rispetto a un im­pianto corposo di un disegno di legge che, una volta approvato dalle Camere, migliorerà decisa­mente le politiche del lavoro di questo Paese.

 

 

 

Esso infatti, contrariamente a quanto sostenuto da qualcuno in questi giorni, affronta, ad esempio, per la prima volta la questione giovanile sia sul ver­sante della tutela previdenziale sia su quello del mercato del la­voro e delle relative tutele.

 

 

 

Per quanto riguarda inoltre le tanto drammatizzate “variazio­ni” al protocollo approvate dal Consiglio dei Ministri, queste erano a preventiva conoscenza delle parti e riguardano, tanto per fare anche qui esempi con­creti, la eliminazione del tetto dei lavoratori usuranti previsto fino ad oggi in 5mila l’anno (scel­ta obbligata al fine di rispettare i diritti individuali). Contemporaneamente è stato però ricon­fermato il tetto di spesa a soste­gno di questa particolare cate­goria a 2,5 miliardi di euro nei dieci anni, e si sono introdotte regole più certe per la definizio­ne e la determinazione di quanti hanno diritto a rientrare in tale categoria.

 

 

 

Altre “specificazioni” riguar­dano i contratti a termine per i quali abbiamo introdotto la proroga di una sola volta dopo i 36 mesi, proroga che avviene alla presenza dei sindacati maggiormente rappresentativi. Essa co­stituisce a nostro avviso una ga­ranzia contro l’abuso dell’utiliz­zo dei contratti a termine. Anche questo strumento è condiviso da Confindustria e Sindacati.

 

 

 

In ogni caso non ci siamo mai tirati indietro rispetto alle ri­chieste di dialogo delle parti so­ciali e questo lo sanno molto be­ne tanto Montezemolo e Bombassei, quanto Epifani, Bonanni e Angeletti e non intendiamo certamente cambiare atteggia­mento in questa occasione. Per questo essi e i loro uffici sono sta­ti informati dal Ministro del La­voro sul processo di stesura del disegno di legge e per questo li incontreremo al più presto, spe­ro domani stesso, per esaminare uno per uno i punti controversi e fornire nel dettaglio le spiega­zioni del caso.

 

 

 

Credo che la drammatizzazione di questa vicenda a cui stiamo assistendo in queste ore non fac­cia bene al governo, ma, soprat­tutto, non faccia bene al Paese che ci chiede iniziative forti e re­sponsabili non dibattiti e scontri alimentati ingigantendo piccoli particolari per trame sempre conclusioni affrettate e negati­ve. Il Paese chiede scelte coeren­ti e stabilità, avendo ereditato assieme a tutti noi (camere, go­verno, parti sociali) un quadro di squilibrio e instabilità preoccupante, anche grazie alle sciagu­rate decisioni della passata legi­slatura, a cominciare dalla legge elettorale. Non è alzando tutti i giorni il tono della polemica che si lavora per il bene dell’Italia.