RADICALI ROMA

Welby il diritto negato

  Nessuno nega a Welby la libertà di invocare che sia staccata la spina che lo lega a una vita insopportabile per la sua ancora lucida coscienza. Ma – molti dicono – non si tratta di un «diritto», in quanto non tutelato dall’ordinamento giuridico, né si può criticare la decisione di un giudice che rifiuta di ordinare al medico il distacco di quella spina: dove è la norma che lo consentirebbe? La norma effettivamente non c’è, ma c’è la sua premessa, e ha la forza del dettato costituzionale. È in quell’articolo 32 della Costituzione che suona così: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Nel primo comma dello stesso articolo si dice che la legge tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Dunque, la salute è un diritto ed è tutelato come tale. Ma che cos’è la salute? È il diritto a viver bene, non solo a vivere. È questo diritto a viver bene che la Costituzione intende tutelare, tanto che lo Stato si obbliga a proteggere gli «indigenti» perché questo diritto possa essere realizzato. E lo tutela aggiungendo che in quel diritto ne è compreso un altro, che è il rispetto della persona umana, della sua dignità che la legge è obbligata a tutelare. Un grande testo, improntato a una religiosità civile, che segna una via maestra. Quel limite, dunque, è dato dal «rispetto della persona umana», nella sua consistenza oggettiva, vitale, e nella sua coscienza: espressione che è il cuore stesso e il nucleo pulsante della cultura occidentale e cristiana. Lo ha invaso, questo limite, il giudice di Roma, negando a Welby il diritto a staccare la spina?

 

 

 

Sembra difficile negarlo, in termini di fatto. Naturalmente, ciò che la Costituzione scrive dovrebbe trovare forza attuativa in una norma, che non c’è, e dunque tutta la situazione diventa obbiettivamente intricata, «anticostituzionale» e insieme «legale»: paradosso italiano, non solo per questo problema. Il caso Welby è emblematico. Welby è una coscienza che vive senza corpo, una coscienza vivissima e lucida cui manca qualsivoglia possibilità realizzativa, perché il corpo è stato abolito dalla malattia. Ma in quel diritto alla salute, che è diritto a viver bene, non c’è, in maniera essenziale, un rapporto per quanto elementare con il proprio corpo? E che cosa è la persona umana se non sinolo di mente e corpo? E che significa rispetto della sua dignità se non anche rispetto di quel sinolo? E che fare quando quel sinolo, in casi estremi, si spezza? Welby potrebbe accettare la sua condizione, come fanno molti altri, o essere nella condizione di non poterla né accettare né non accettare, ma il fatto è che egli, con una coscienza lucidissima che nessuno mette in discussione, non la accetta, e non la accetta chi sta intorno a lui, la sua famiglia, le persone che gli sono legate da affetto, la «comunità Welby». Il fatto che Welby sia entrato nel circolo mediatico non rende facile nemmeno una soluzione più silenziosa, in un colloquio intenso e riservato con il proprio medico, giacché quella nuda coscienza è interamente sotto i riflettori, e ogni suo spasimo si traduce nel linguaggio pubblico e non appartiene più a se stessa e al medico che ne sorveglia il tragitto finale. La sua volontà, espressa con determinazione assoluta, è una invocazione, la disperata intenzione di voler decidere della propria morte, essendo Welby nell’impossibilità materiale di darsela. La disperata volontà di un uomo che chiede di morire nell’impossibilità di darsi da solo la morte, dovrà trovare tutela, e diventare perciò un vero diritto? In fondo il nodo vero è questo, e la Costituzione offre la via maestra per rispondere al problema. Essendo il legislatore tale in uno Stato laico deve escludere, dalle sue decisioni, il peso esclusivo di quelle culture della sacralità della vita, che la sottraggono alla disponibilità dell’uomo, essendo la vita dono di Dio. Questa visione della vita, cui si deve ogni rispetto, non può fondare l’assolutezza di un confine normativo che non si debba varcare. Gli interrogativi che si disegnano, oltre il caso Welby, stanno, secondo me, in un altro orizzonte. Toccano il tema del rapporto fra libertà e individuo; i vincoli che vanno certamente posti alla libertà come mero arbitrio; i punti-limite fino ai quali questa libertà può disporre di se stessa. Se l’individuo non è monade, e se l’ordinamento deve tener conto della comunità che sta «in interiore hominis», la tutela della libertà di morire deve trovare in ciò le proprie articolazioni e i propri confini. Non esser negata sulla base del principio della sacralità della vita, della sua indisponibilità, ma studiata, auscultata nella sua specifica fisionomia, nell’orizzonte essenziale del «rispetto della persona umana». In questo quadro, certo, quello di Welby è il caso limite di una coscienza ormai separata dal corpo, e il suo «diritto» a voler morire dovrebbe apparire fuori discussione. La norma futura dovrebbe essere capace come non mai di aderire alle cose, non staccarsi in mera, astratta fattispecie, ma porsi, proprio perché in relazione alla vita, in un rapporto virtuoso con la sua complessità. Mai come in una fattispecie così problematica, il legislatore dovrà essere esperto del senso della vita, comprendere che quando la legge giunge fino a questo confine la sua responsabilità cresce enormemente. Non si può ergere un confine che rifiuti di vedere il problema, non si può nemmeno aprire un varco piantato soltanto sulla libertà come mero arbitrio individuale. Sarà insomma difficile la misura da cercare.