Rigido indottrinamento, pressioni psicologiche, rinuncia a qualsiasi iniziativa personale, controlli incessanti su ogni attività della vita, obbedienza cieca, autoflagellazione: questi e altri sono gli ingredienti della vita all’ombra dell’Opus Dei, secondo il racconto che, per la prima volta in Brasile, ne fanno tre ex membri della Prelatura – il professore ordinario di Filosofia e Storia dellall’Università di São Paulo Jean Lauand, il giudice Marcio Fernandes da Silva e il cardiologo Dario Fortes Ferreira – in un libro, lanciato alla fine di ottobre, dal titolo Opus Dei – Os bastidores (Dietro le quinte). Gli stessi ingredienti che si incontrano nelle tante testimonianze raccolte da un sito – www.opuslivre.org – destinato proprio, come si legge nell’home page, a chi vuole uscire dall’Opus Dei o ha dubbi se entrare, o è stato membro dell’Opera e ha bisogno di aiuto, o cerca informazioni, o ha figli che frequentano un centro o collegio dell’istituzione (con un interessante avviso: “se questo sito scomparirà ‘miracolosamente’, o smetterà di funzionare ‘miracolosamente’, pensate alla ‘santa intransigenza’ (…) e ai santi tentacoli. Di fronte a tali ‘miracoli’, ne apriremo un altro”).
“Dopo aver scoperto di essere stati manipolati per anni – spiega Lauand in un’intervista rilasciata alla rivista brasiliana Epoca – abbiamo lasciato l’Opera con un grande senso di colpa, con problemi psicologici. Gli ex membri sono trattati come morti. Fotografie e registri sono soppressi dagli archivi. Il loro nome non può essere citato. Abbiamo creato il sito perché le persone potessero incontrarsi e scambiare esperienze. A un certo punto, pensammo di fermarci. Allora Dario ha detto: ‘non voglio che i miei figli siano ingannati dall’Opus Dei per mancanza di informazioni’. Abbiamo raccolto 150 testimonianze. Il libro è stato pronto in sei mesi”. Lauand ha militato nell’Opus Dei per 35 anni, dai 16 ai 51. Quando, due anni fa, è uscito, aveva donato all’istituzione un milione di reais (più di 300mila euro). Negli anni della sua appartenenza all’Opus, per due ore al giorno indossava il cilicio; una volta a settimana si autoflagellava con una frusta mentre recitava il salve-regina. Ma, al di là di tali pratiche, la vita di un numerario dell’Opera (di chi, cioè, vive nelle residenze della Prelatura, fa voto di celibato e dona beni all’istituzione) è segnata da innumerevoli regole e divieti: di viaggiare, uscire di notte, avere il cellulare, giocare a scacchi, leggere determinati autori ecc. E dall’obbligo di consultare i superiori su tutto, persino su una visita ai familiari. Non a caso, il libro pubblica la lettera dei genitori di un numerario che ringraziano ironicamente l’Opus per la distruzione della loro famiglia, che prima “era felice, normale e cattolica”. Frequenti tra i numerari, secondo gli autori, anche disturbi psicologici e sintomi depressivi, conseguenti al tipo di vita condotto dai membri dell’istituzione: una vita, si legge nel libro, “in cui ‘non esistono piccole disobbedienze’ e non esiste neppure una vita propriamente individuale”. Perché “i direttori assumono, di fronte al numerario, una dignità divina. I direttori devono essere obbediti senza batter ciglio, e quelli che obbediscono dovranno dire che obbediscono perché volevano e vogliono obbedire sempre”.
È quanto emerge, per esempio, da una delle testimonianze presenti nel sito e raccolte dal libro, quella di Marcio Fernandes da Silva, di cui qui di seguito riportiamo ampi stralci in una nostra traduzione dal portoghese. (claudia fanti)
Club Pinhal
Conobbi l’Opus quando avevo circa 10 anni. Fui invitato, da un ragazzo mio vicino, a partecipare alle attività del Club Pinhal. Questo club si trovava – e forse ancora si trova – nella stessa sede del Centro Culturale Pinheiros, in São Paulo. Vi si svolgevano attività manuali e ludiche, si organizzavano gare e gite. Trovavo tutto molto bello, molto divertente. Faceva parte delle attività del club anche una lezione di catechismo, tenuta da un sacerdote dell’Opus. (…) I miei genitori non sapevano nulla dell’Opus e lasciarono che frequentassi il club.
Centro Culturale Pinheiros
Alcuni anni dopo, a circa 14 anni, presi a frequentare il Centro. E che si faceva al Centro? Sostanzialmente, studiare e ricevere “formazione”. (…) La “formazione” consisteva nel partecipare alle seguenti attività:
1. Colloquio settimanale con il sacerdote (…).
2. Meditazione settimanale a cura di un sacerdote. (…)
3. Circolo: conferenze che un membro dell’Opus dava a un gruppo ridotto di ragazzi.
4. Raccoglimento: un momento nel quale il sacerdote teneva due meditazioni.
5. Ritiro. Si trattava di un fine settimana che trascorrevamo in una casa di campagna, con un intenso programma di “formazione” che includeva diverse meditazioni e conferenze. Nei ritiri il silenzio era obbligatorio.
6. Convivio. Era un tempo che passavamo sempre in una casa di campagna, ma senza l’obbligo del silenzio.
È chiaro che non fu da un giorno all’altro che presi a partecipare a queste attività. Il personale del Centro mi propose di partecipare a ciascuna di esse in maniera graduale.
C’erano anche le cosiddette “pratiche di pietà” o “norme”. A poco a poco, il sacerdote mi chiese di osservare le norme della lettura del Vangelo, della lettura spirituale, della preghiera mentale, della messa durante la settimana ecc.
Altre cose che mi chiesero di fare: a) Visite agli ospedali (…) b) Visite ai poveri (…). Le visite agli ospedali e ai poveri non avevano alcuna finalità di assistenza ai bisognosi. Il fine era quello di suscitare nel ragazzo il desiderio di aiutare, di essere generoso. Questo sentimento sarebbe stato utilizzato dall’Opus, successivamente, per indurre il ragazzo a diventare membro dell’istituzione.
Richiesta di ammissione
Da un certo momento in poi, presi ad andare al Centro quasi tutti i giorni della settimana.
Avevo solo 15 anni. Uno dei membri dell’Opus cominciò a insistere perché diventassi un membro dell’istituzione. Non lo prendevo sul serio. Pensavo che stesse sbagliando, che non avessi alcuna “vocazione”. A quel punto feci un ritiro. In questo ritiro una delle meditazioni aveva come tema la “vocazione”. Il sacerdote che guidava il ritiro enfatizzò molto la vocazione all’Opus: insistette sulla necessità di essere “generosi” e via dicendo. Quel forte suggerimento del sacerdote fece sì che iniziai a pensare alla questione nei giorni successivi al ritiro. (…) La prima persona a cui domandai più apertamente “lei pensa che io abbia la vocazione di entrare nell’Opera?” fu il sacerdote del Centro. Ed egli disse “sì”, senza esitare.
Il sacerdote del Centro Culturale Pinheiros, in quel tempo, era p. R. S. Uso qui solo le iniziali, perché ho saputo che R. S., grazie a Dio, è riuscito a capire le assurdità che predicava, e ha lasciato l’Opus. (…) Quel sacerdote, con cui conversavo già da alcuni anni, esercitava una grande influenza su di me. Io non mi aspettavo una sua risposta affermativa. Il mio impulso iniziale fu di spavento, di grande sorpresa. La mia idea iniziale sulla vita era quella di sposarmi, avere figli, vivere una vita più comune, essere un cristiano più comune. (…)
Già conversavo con una certa frequenza con il direttore del Centro, che in quel tempo era João Malheiros. Metto il suo nome per esteso perché, in base all’ultima informazione ricevuta, egli continua ancora a stare nell’Opus. Cosicché, nel caso egli legga questo scritto, si renderà conto dell’ingiustizia commessa nei miei confronti, quando avevo solo 15 anni. Anche João Malheiros disse di ritenere che io avessi la “vocazione”. Tutto ciò mi diede un grande malessere. La sensazione di trovarmi in un vicolo senza uscita. In fin dei conti, si trattava delle persone che più mi stavano a cuore… Era il mio principale circolo di amicizie. Era il mio vincolo emotivo e affettivo più forte
, forse uguale o maggiore a quello che mi legava ai miei genitori e ai miei fratelli, in quella fase della mia vita.
Questa situazione durò alcuni giorni, forse una decina, finché non “fischiai” (“fischiare” è una parola usata nel gergo dell’Opus che significa chiedere l’ammissione come membro dell’Opera). (…) Entrai nell’ufficio di João e dissi che volevo chiedere l’ammissione all’istituzione. Mi disse che avrei dovuto scrivere una lettera al “Padre”, ossia al prelato dell’Opus, chiedendo l’ammissione come numerario dell’Opus (numerario è il membro dell’Opus che è vincolato al celibato e abita nelle residenze dell’istituzione). (…)
Alcuni numerari del Centro vennero a congratularsi: “Pax!”. Io dovevo allora rispondere: “In Aeternum!” (questo è il saluto segreto dei membri) (…).
Provai un’enorme sensazione di pace. “Sono stato generoso!”, pensai. In fondo, ciò che spiega questa sensazione di pace è il punto finale, ossia la soluzione che avevo trovato per porre termine a quel conflitto rispetto alla “vocazione”.
Conflitto, questo, che fu creato dai membri dell’Opus Dei. Di fatto, l’insistenza di uno dei numerari perché anche io diventassi un membro, la predicazione del sacerdote al ritiro, la posizione ferma di p. R. S. rispetto alla “certezza” della mia “vocazione”, la stessa posizione di João Malheiros… Tutto questo ha fatto parte di un piano attentamente eseguito, nel loro insieme, dai membri dell’Opus.
Logico che, al momento di chiedere l’ammissione, io avessi fede nel Dio del cattolicesimo, in Gesù Cristo (fede che oggi, malgrado l’esperienza con l’Opus, ancora conservo, ma tenendomi ben lontano da qualsiasi fondamentalismo o fanatismo). In quel momento, io credevo che Dio, parlando attraverso il sacerdote e il direttore del Centro, volesse che fossi un membro dell’Opus. (…)
Non dissi nulla ai miei genitori sulla mia “vocazione”. Nell’Opus, dicevano che la “vocazione” era una cosa molto personale. Dicevano anche che spesso i genitori non capivano la “vocazione” dei figli e, per questo, era meglio non parlarne con la famiglia. Passai, allora, ad essere un “aggiunto” (“aggiunto” è il numerario che ancora non abita nel Centro).
Aggiunto
Nelle settimane che seguirono alla richiesta di ammis-sione, parlai ripetutamente con João Malheiros. In questi colloqui, João, a poco a poco, mi spiegò come vivere il cosiddetto “spirito dell’Opera” (…). Il direttore mi parlò del cilicio e delle discipline. Ottenni il mio kit di autoflagellazione. Mi parlò del conto delle spese (un rapporto di tutte le spese personali, anche minime, che doveva essere presentato al direttore). Mi parlò della correzione fraterna (il modo in cui un membro indicava deviazioni dal cosiddetto “spirito dell’Opera” che avesse eventualmente osservato nel compor-tamento di un altro membro), dell’acqua benedetta nel letto e delle tre ave maria con le braccia in croce prima di dormire (…). Ero preoccupato, e pensavo: “e ora che altra sorpresa verrà?” (…)
La mia routine da aggiunto era estenuante: sveglia alle 5, doccia fredda, partenza per il Centro. La messa. Dal Centro al collegio. Pranzo e ritorno al Centro. Preghiere, lettura del Vangelo e di un libro spirituale. Cilicio per due ore. Studio o svolgimento di qualche incarico. Alle 16.30, preghiera mentale. Alle 17, riunione con caffè. Alle 17.30 studio o colloquio fraterno, o qualche altro incarico. Alle 19 circa ritorno a casa in autobus. In autobus, preghiere. A casa, cena e a letto, morto di stanchezza. E tutto questo anche il sabato e la domenica. La domenica facevamo una gita o una partita di calcio.
Fui “vittima di una persecuzione” nel collegio in cui studiavo. A un certo punto, uno dei professori parlò male dell’Opus. Io la difesi. Commentai l’accaduto con il sacerdote e con João Malheiros ed essi applaudirono il mio coraggio, con una frase del tipo: “Dio non pone uno qualunque in una situazione tanto dura… Essere perseguitati è il segno di una predilezione di Dio. Sei valoroso, hai coraggio!”. Il fatto è che la critica del professore rafforzò la mia fede nell’Opus. È frequente nelle sètte: a causa degli argomenti inculcati nel processo di “formazione”, una critica esterna finisce per consolidare i vincoli del membro con la sua setta.
È obbligo di tutti i numerari fare proselitismo. Al tempo del collegio, invitai alcuni dei miei colleghi al Centro. Una parte di essi, per fortuna, aveva genitori ben più informati dei miei sull’Opus. Questi colleghi smisero di accompagnarmi. Ma purtroppo un mio amico si coinvolse per più tempo con l’Opus. Non arrivò a diventare un membro, ma, anche così, mi riferì che i suoi colloqui con un sacerdote dell’Opus avevano contribuito a incrinare la sua salute psichica. (…)
Partecipai a un convivio, poco tempo dopo “aver fi-schiato”, per accompagnare alcuni ragazzi che erano potenziali nuovi membri dell’Opus. Fu triste per me. Soffrii la freddezza degli altri “di casa”: poiché sapevano che avevo “fischiato”, era come se non esistessi. Dopo aver abboccato ed essere diventato un membro dell’Opus, non avevano più bisogno di fare i simpatici con me. In questo convivio, nell’ora dello sport o in qualche momento libero, invitai un ragazzo a giocare a scacchi. (…) Ricevetti una correzione fraterna: mi dissero che gli scacchi erano proibiti. Forse perché possono stimolare l’esercizio della ragione? (…)
Residente
Compii 18 anni. Andai ad abitare nel Centro, in una stanza con altri due numerari.
Ricevetti una correzione fraterna, perché “facevo il bagno rapidamente”. Di fatto, penso che volassi in quel bagno, perché, anche in inverno, dicevano di fare la doccia fredda.
Tutti i giorni, di mattina, facevamo la preghiera mentale e assistevamo alla messa all’oratorio del Centro. Da lunedì a venerdì, la messa finiva alle 7 circa. Le mie lezioni in facoltà, al campus della Usp, iniziavano alle 7.30. Così, l’unico modo che trovai per arrivare in orario alle lezioni fu di andare in bicicletta. Ai numerari, in generale, non era permesso avere una propria auto, e questo era il mio caso. (…). Dopo qualche tempo, João Malheiros mi proibì di andare in bicicletta in facoltà. (…). Egli disse che dovevo andare in autobus per fare apostolato con gli altri passeggeri! E disse: “non ha importanza se arrivi tardi” (…). Che ne era di quel “santificare il lavoro professionale” che è uno dei punti centrali del messaggio dell’Opus?
Presi a vivere il “giorno di guardia”, che era un obbligo settimanale dei numerari. Alla vigilia di questo giorno, il numerario doveva dormire per terra. La prima volta non dormii quasi per niente, a causa dello sconforto e del freddo. (…)
Volevo seguire un corso di lingua straniera. João Malheiros non lo permise. Ma io non capivo, per esempio, perché João poteva, nel pomeriggio, “dare un’occhiata” in tv alla partita di calcio… Vedere il calcio, sì. Studiare una lingua straniera, no. E dicevano che l’Opus si rivolge, in maniera preferenziale, agli intellettuali… (…)
Crisi
Il tempo passava, e io iniziai a rendermi conto di molte cose sbagliate al Centro.
Cominciai a dire a João Malheiros che avevo dubbi riguardo alla mia “vocazione”. Dicevo: “la mia testa non è più qui”. Oppure: “Se restassi qui, finirei per essere di ostacolo, perché non credo più in questo”. O anche: “come posso fare proselitismo, se non ci credo?”. Iniziai a trovarmi in disaccordo su una grande quantità di cose. A cogliere incongruenze, ipocrisie (…)
Sentivo che, per fare qualcosa con piacere, con amore, soprattutto nelle cose relative a Dio, questo qualcosa doveva nascere dal nostro intimo, doveva sorgere da una convinzione personale. Doveva nascere da una parte del nostro essere inaccessibile a chiunque. Pertanto questo agire meccanicamente, in base a una semplice indicazione del direttore, significava operare in maniera spersonalizzata: questo può aver luogo in altre istituzioni umane, ma non quando si tratta di qualcosa relativo a Dio. (…).
La situazione era delicata soprat
tutto per l’aggravante di non poter fare alcun commento critico rispetto a una qualunque cosa dell’istituzione, con gli altri membri e più ancora con i non membri. Questo era proibitissimo. Nella “formazione” essi enfatizzavano molto il fatto che ogni commento critico rispetto all’Opus doveva essere fatto solo con il direttore, che, in questo caso, cercava di persuadere il membro ad avere meno “spirito critico”.
Arrivò il momento in cui iniziai a pensare a queste cose a letto, prima di dormire. A pensare, a pensare, a pensare. Pensavo tanto da passare intere notti sveglio.
Rispetto alla salute fisica, mi ricordo che un pomeriggio mi sentii estremamente debole, esausto, in conseguenza di una forte influenza. Ne parlai a João Malheiros ed egli non mi autorizzò a mettermi a letto. Nonostante questo, andai a sdraiarmi, perché non mi reggevo semplicemente in piedi. (…)
I colloqui sulla “vocazione” si andavano ripetendo con João Malheiros. A un certo punto, gli dissi che andavo via. Mi chiese di restare ancora un po’, di pensarci meglio. Passava del tempo e io, di nuovo, “vado via la prossima settimana”. Ed egli: “resta ancora, aspetta che passi del tempo”. Non so quanto rimasi in questa situazione. (…)
In quel periodo io svolgevo un incarico di manutenzione materiale del Centro, molto controvoglia. Era il segretario del Centro che mi dava questi incarichi. Il giorno prima che me ne andassi, venne a chiedermi di svolgere un altro incarico, ma ribattei: “questa volta non funziona, perché domani me ne vado”. Ed egli se ne andò, in silenzio. Oggi capisco che questa quantità di incarichi faceva parte della loro tattica per trattenermi nel Centro altro tempo, impedendomi di pensare. Grazie a Dio, trovai tempo, lucidità e serenità per essere sicuro del passo che stavo per compiere. (…) Alcuni giorni dopo aver lasciato il Centro, decisi di disfarmi del cilicio e delle discipline. Presi questi strumenti di autoflagellazione e li gettai nel fiume. Non mi pentii mai di aver lasciato l’Opus.
Conseguenze
Per quanto avessi smesso di essere un membro dell’isti-tuzione, psicologicamente avevo ancora un legame enorme con l’Opus. Dopo aver ricevuto tutta quella “formazione”, dai 10 ai 18 anni, non sapevo vivere se non basandomi sugli insegnamenti dell’Opus. Gli insegnamenti dell’Opus erano troppo radicati nel mio essere (…).
Come risultato del mio coinvolgimento con l’Opus e della “formazione” ricevuta, soffrii dei problemi psicologici, anni dopo aver lasciato l’istituzione. Grazie a Dio, grazie all’aiuto di un’eccellente psicologa e grazie al mio sforzo personale, riuscii a superare i miei problemi.
Nel liberarmi dalla prigione mentale della “formazione” ricevuta nell’Opus, ebbi la nitida sensazione di rinascere nuovamente. Tutto per me era una novità! Dio, le persone, le cose del mondo… (…) Dopo aver fatto un “viaggio” molto strano e autodistruttivo nel “mondo dell’Opus”, stavo nuovamente “atterrando” sul pianeta Terra. Può sembrare che io stia esagerando, ma è vero: in questa fase, anche prendere un semplice caffè con biscotti era qualcosa che mi riempiva di allegria!