di Francesco Tucci
Il 2 marzo scorso la Corte Costituzionale ha depositato le sentenze relative ai giudizi di inammissibilità sui quesiti referendari “Eutanasia legale” e “Cannabis legale” (nel resto della nota li chiamo così per semplicità e in coerenza con la denominazione adottata dai comitati promotori). In questa breve nota provo a fornire, pur non avendo particolari competenze giuridiche, un resoconto delle motivazioni sulla base delle quali la Consulta ha respinto i quesiti. Al di là di quello che si pensi della conferenza stampa di Giuliano Amato, credo infatti che sia importante cercare di comprendere la ratio, condivisibile o meno, seguita dalla Corte nel prendere le proprie decisioni, per poter sviluppare al meglio il futuro dibattito su questi due temi, che restano centrali per l’area radicale. Ovviamente per trovare una panoramica migliore delle ragioni a supporto dei quesiti referendari vi rimando ai materiali sia giuridici che politici messi a disposizioni dai comitati promotori ai seguenti link (questo per l’Eutanasia e questo per la Cannabis).
Eutanasia
Per quanto riguarda il quesito relativo all’“Abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente)” (questa la denominazione ufficiale scelta dal competente Ufficio della Cassazione), l’abrogazione richiesta dal quesito avrebbe portato di fatto a considerare penalmente rilevante l’omicidio del consenziente solo nei casi di:
• persona minorenne;
• consenso derivato da condizioni di deficienza psichica (anche temporanea) o carpito con violenza, minaccia, inganno o suggestione.
Secondo i promotori, nel caso di approvazione del quesito referendario, nel nostro ordinamento sarebbero comunque rimaste garanzie sufficienti a scongiurare l’irrilevanza penale dei casi di omicidio di una persona consenziente evocati enfaticamente sulla stampa (es. omicidio in seguito a delusione amorosa o a fallimento economico). Infatti tali casistiche sarebbero state in ogni caso tutelate a livello penale dalla particolare stringenza con cui la giurisprudenza ha finora valutato i requisiti del consenso necessari affinché si possa riscontrare la fattispecie dell’omicidio del consenziente (e non invece quella dell’omicidio doloso) e dalla disciplina relativa alla circonvenzione di incapace (art. 643 del codice penale).
Sulla ratio di fondo più sostanziale del referendum, aveva invece sintetizzato efficacemente il prof. Tullio Padovani in un documento redatto per il comitato promotore:
Eliminando le parole che la proposta di referendum si propone di abrogare, l’art. 579, c.p. ruota agli antipodi, e si ritrova a sancire il principio di disponibilità del diritto alla vita. Infatti, il testo risultante prescrive che alla morte cagionata col consenso di persona non in grado di prestarlo (per età o condizioni personali) o invalido per modalità di formazione (estorto o carpito) siano applicabili le disposizioni comuni sull’omicidio, sul presupposto implicito, ma univocamente desumibile […], che se il consenso è validamente prestato, tali disposizioni comuni non possano essere applicate. L’asse teleologico dell’art. 579 c.p. […] risulterebbe così letteralmente rovesciata: da norma-baluardo dell’indisponibilità del diritto alla vita a norma-riconoscimento della sua disponibilità.
Di fronte a queste ragioni e alle altre sottolineate nella memoria depositata dai promotori, la Corte nella propria sentenza ribadisce innanzitutto che il giudizio di ammissibilità sui referendum si propone di verificare che non sussistano le seguenti ragioni di inammissibilità:
• quelle indicate, o rilevabili in via sistematica, dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione, attinenti alle disposizioni oggetto del quesito referendario;
• quelle relative ad alcune proprietà minime di logicità concernenti la formulazione del quesito referendario, “come desumibili dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione (sentenze n. 174 del 2011, n. 137 del 1993, n. 48 del 1981 e n. 70 del 1978): omogeneità, chiarezza e semplicità, completezza, coerenza, idoneità a conseguire il fine perseguito, rispetto della natura ablativa dell’operazione referendaria (sentenza n. 17 del 2016)”.
Inoltre la Corte afferma come non possano essere oggetto di un giudizio di ammissibilità eventuali profili di illegittimità costituzionale, sia della legge oggetto di referendum, sia della normativa risultante dall’eventuale abrogazione referendaria. Tali profili devono essere infatti discussi solo nel caso in cui siano sollevate, successivamente al referendum, questioni di incostituzionalità da parte del giudice ordinario.
Tuttavia, e questo è un passaggio chiave alla luce di quella che sarà poi la decisione di inammissibilità sul referendum Eutanasia, la Corte afferma che “può rilevare, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta referendaria, una valutazione […] limitata del rapporto tra oggetto del quesito e norme costituzionali, al fine di verificare se il venir meno di una determinata disciplina non comporti ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale (sentenze n. 24 del 2011, n. 16 e n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005)”. Si può già rilevare quindi a margine come non sia del tutto vero ciò che scrive la Corte quando afferma che non si può valutare l’illegittimità costituzionale della normativa di risulta nel corso di un giudizio sull’ammissibilità di un referendum.
Dopo queste premesse metodologiche sul perimetro delle proprie decisioni, la Corte articola il proprio ragionamento nel merito in due passaggi. Il primo afferma che, eliminando la rilevanza penale dell’omicidio del consenziente, al di fuori delle sole ipotesi di invalidità del consenso di cui si è detto in precedenza (persona minorenne ecc.), il testo risultante “verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo.”
Secondo la Corte infatti, “l’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente oggettivamente conseguente alla vittoria del sì non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili. […] Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte.”
Inoltre, “a fronte della limitazione della rilevanza penale dell’omicidio del consenziente alle sole ipotesi espressamente indicate dall’attuale terzo comma dell’art. 579 cod. pen., nulla autorizzerebbe a ritenere che l’esenzione da responsabilità resti subordinata al rispetto della “procedura medicalizzata” prefigurata dalla legge n. 219 del 2017 per l’espressione (o la revoca) del consenso a un trattamento terapeutico (o del rifiuto di esso).” Su questo punto si ricorda infatti che, secondo i promotori, la severità della giurisprudenza nel rintracciare i requisiti per il riscontro effettivo della fattispecie dell’omicidio del consenziente avrebbe fatto sì che il solo ambito in cui il principio di autodeterminazione alla morte avrebbe potuto legittimamente operare sarebbe stato all’interno della legge n. 219 del 2017, in tema di consenso informato e testamento biologico.
Sintetizzando, il primo passaggio del ragionamento svolto dalla Corte è volto a illustrare come l’abrogazione proposta dal referendum avrebbe depenalizzato l’omicidio del consenziente ben al di là del perimetro di casi ipotizzato dai promotori, finendo per riguardare una casistica più ampia di situazioni in cui sarebbe stato possibile (anche solo ipoteticamente) rintracciare quella che, a legislazione vigente, è la fattispecie giuridica dell’omicidio del consenziente.
Il secondo passaggio del ragionamento della Consulta mostra a questo punto come l’eccessiva liberalizzazione dell’omicidio di persona consenziente conduca inevitabilmente, nell’interpretazione della Corte, al giudizio di inammissibilità del quesito referendario. Infatti, a partire dalla pronuncia n.16 del 1978, la Corte ha riconosciuto come inammissibile, al di là del dettato dell’art. 75 della Costituzione, quella categoria di referendum «avente per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato, il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)». All’interno di questa categoria di norme legislative che non possono essere oggetto di richieste referendarie, la sentenza n. 27 del 1987 ha chiarito che debbono essere enucleate due distinte categorie:
“innanzitutto le leggi ordinarie che contengono l’unica necessaria disciplina attuativa conforme alla norma costituzionale, di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione di quest’ultima (cfr. sentenze n. 26/1981 e 16/1978); in secondo luogo, le leggi ordinarie, la cui eliminazione ad opera del referendum priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale “la cui esistenza è invece voluta e garantita dalla Costituzione (cfr. sentenza n. 25/1981)”.
Successivamente, la sentenza n. 35 del 1997 ha riferito quest’ultima ipotesi anche
«a quelle leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione», e la sentenza n. 49 del 2000 ha puntualizzato che le leggi «costituzionalmente necessarie», poiché sono «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento»
Considerando come il “diritto alla vita”, implicitamente contenuto nell’art. 2 Cost. secondo la Consulta, sia uno di quelli da iscriversi come inviolabili secondo la disciplina della nostra Costituzione, la normativa di risulta eliminerebbe una tutela minima di tale diritto costituzionalmente garantito. Nelle parole della Corte: “Quando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”. In parole più semplici, secondo la Corte il diritto alla vita non può essere sempre considerato nella piena disponibilità del singolo individuo.
In conseguenza di questa indisponibilità, la Corte conclude che, quando si è in presenza di un diritto costituzionalmente garantito, i livelli di tutela minima di tale diritto non possono essere semplicemente aboliti con un referendum, ma sono eventualmente modificabili solo dal legislatore ordinario, al quale spetta il compito di trovare il giusto bilanciamento tra il diritto alla vita e quello all’autodeterminazione del singolo.
Per concludere, dalla decisione della Consulta sul referendum “Eutanasia legale” emerge che:
• la Corte Costituzionale, secondo la propria giurisprudenza (condivisibile o meno), può valutare nell’ambito dell’ammissibilità dei referendum alcuni profili di costituzionalità della normativa di risulta, qualora quest’ultima possa far venire meno un livello di tutela “minima” di diritti costituzionalmente garantiti (in questo caso il diritto alla vita);
• la Corte ha ritenuto che l’abrogazione parziale dell’art. 579 cod. pen. (omicidio del consenziente) avrebbe depenalizzato l’omicidio del consenziente ben al di là del perimetro immaginato dai promotori. Le casistiche elencate dalla normativa di risulta, nelle quali l’omicidio del consenziente sarebbe rimasto penalmente perseguibile (minore età, violenza, inganno ecc.), non sono state ritenute infatti sufficienti a garantire tutte le possibili situazioni di vulnerabilità e fragilità;
• il diritto all’autodeterminazione, nella giurisprudenza italiana, deve essere bilanciato rispetto al diritto alla vita, il quale non è sempre nella piena disponibilità del singolo. Su questa materia solo il legislatore ordinario può stabilire il livello e la misura del bilanciamento, non il cittadino mediante lo strumento del referendum abrogativo.
Cannabis
Per quanto riguarda il quesito sull’«Abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative in materia di coltivazione, produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope» (denominazione anche qui assegnata dall’Ufficio competente presso la Cassazione), il referendum era articolato in tre sottoparti:
• la prima richiedeva l’eliminazione del verbo “coltiva” dalle condotte penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 73 comma 1 del testo unico (TU) 309/90;
• la seconda richiedeva l’eliminazione delle pene detentive per le condotte relative alla cannabis (Tabella II) e alle benzodiazepine (Tabella IV), previste dal comma 4 dell’art. 73, lasciando immutata la possibilità di applicare sanzioni amministrative;
• la terza rimuoveva la sospensione della patente dalle sanzioni amministrative per colui che “per farne uso personale, illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”, così come previsto dall’art. 75, comma 1.
A fronte del vincolo sull’ammissibilità dei referendum rappresentato dalla normativa internazionale in materia di sostanze stupefacenti (ovvero le tre Convenzioni ONU ratificate dall’Italia nel 1961, 1971 e 1988), i promotori hanno argomentato che il quesito referendario avrebbe soltanto attenuato le sanzioni penali previste nel TU, salvaguardando però la generale punibilità delle condotte previste dalla normativa internazionale. È importante ricordare infatti come la Consulta (a partire dalla sentenza n. 16 del 1978) abbia nel corso del tempo esteso il vincolo previsto dall’art. 75 Cost. sull’inammissibilità dei referendum relativa alle leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali anche alle leggi che a quei trattati danno concreta operatività (come nel caso del TU sugli stupefacenti).
Altro aspetto interessante è che, nell’intenzione dei promotori, l’abolizione del termine “coltiva” al comma 1 dell’art. 73 avrebbe riguardato le condotte di coltivazione cosiddette “domestiche” e “rudimentali” delle piante di cannabis, mentre non avrebbe comportato la decriminalizzazione di qualsiasi condotta di coltivazione (come ad es. la coltivazione massiva), poiché sarebbero rimaste pienamente vigenti le disposizioni dell’art. 26 e 28. ((L’art. 26 recita “Salvo quanto stabilito nel comma 2, è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all’articolo 27, consentiti dalla normativa dell’Unione europea”. L’art. 28 invece dice ““Chiunque, senza essere autorizzato, coltiva le piante indicate nell’ articolo 26, è assoggettato alle sanzioni penali ed amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse”))
A fronte di queste argomentazioni, la Corte ha messo in discussione innanzitutto il perimetro di condotte incluse nel termine “coltiva” nell’art. 73 comma 1, così come ipotizzato dai promotori. La Corte afferma infatti che “in mancanza di specificazioni, si tratta della coltivazione tout court, quale che sia la sua estensione, pure agraria e finanche massiva”. Inoltre, la Corte afferma che il comma 1, riferendosi alle sostanze presenti nelle tabelle I e III del TU (ovvero le sostanze cd. “pesanti”), avrebbe legalizzato anche la generica coltivazione di piante come il papavero sonnifero e le foglie di coca.
A questo punto la Corte afferma che tale esito, derivante dal referendum abrogativo, sarebbe in aperto contrasto con la normativa internazionale, in particolare con la direttiva 2017/2103/UE. La coltivazione inoltre, anche in caso di esito positivo del referendum, sarebbe stata comunque vietata ai sensi degli art. 26 e 28 del TU, non toccati dal quesito referendario. Per cui, secondo la Corte, il quesito referendario “presenta elementi di grave contraddittorietà rispetto al fine obiettivo dell’iniziativa referendaria tali da pregiudicare la chiarezza e la comprensibilità del quesito per l’elettore (sentenze n. 24 del 2011, n. 15 del 2008 e n. 45 del 2005).” In altre parole, secondo la Corte, l’obiettivo dei promotori attraverso l’abrogazione del termine “coltiva” sarebbe “vano” ed “illusorio” (parole della Corte…), perché la condotta rimarrebbe comunque perseguibile per via di altri articoli del TU.
Da ultimo la Corte sottolinea come la seconda parte del quesito (ovvero l’abolizione delle pene detentive per le condotte legate alla cannabis) presenterebbe elementi di contraddittorietà rispetto al comma 5 dell’art. 73, il quale prevede che per le condotte di “lieve entità”, relative a tutte le sostanze (e quindi anche alla cannabis), rimarrebbe comunque in vigore la possibilità di una pena detentiva. Tale comma infatti non sarebbe stato toccato dal referendum. Si sarebbe quindi giunti all’esito paradossale che per fatti di “lieve entità” legati anche alla cannabis si sarebbe rischiata la detenzione, mentre per fatti legati alla cannabis, anche più gravi, la detenzione non sarebbe stata possibile.
In conclusione, la decisione di inammissibilità da parte della Consulta si è basata principalmente su due assi portanti:
• l’ambiguità del termine “coltiva” all’interno del TU stupefacenti, che sarebbe stato erroneamente interpretato dai promotori all’art. 73 comma 1 come riferito solo alla coltivazione “domestica” e “rudimentale”, e al quale la Corte ha invece attribuito un’interpretazione più ampia. Ai sensi della normativa internazionale citata in precedenza, non è possibile infatti depenalizzare la coltivazione tout court, pena la violazione dei trattati;
• la contraddittorietà della normativa interna al TU stupefacenti derivante da un eventuale esito positivo del referendum, con la coltivazione consentita da alcuni articoli e sanzionata da altri e la contraddizione tra fatti di “lieve entità” puniti con il carcere e condotte più gravi non soggette invece alla pena detentiva.
Sottolineo come sul referendum Cannabis il comitato promotore abbia risposto in via preliminare alla sentenza della Corte in questa nota.
30 marzo 2022