Quattro citazioni, nell’indice dei nomi, per Miguel De Cervantes: stretto tra le cinque che si guadagna Antonio Cerrato, condannato per essere uno degli esecutori di un delitto (e di un processo) che ha fatto epoca, quello di Gennaro Cuocolo; e le otto dedicate a Ferdinando Cesarano: camorrista referente diretto nella zona di Pompei del boss Carmine Alfieri. Si sa che i mafiosi amavano guardare “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, volendo ispirarsi a Marlon Brando. Ma che i camorristi si ispirassero al “Cavaliere dalla triste figura” non era dato saperlo: e infatti non è così, di don Chisciotte e delle sue imprese se ne impipano. Dunque, che c’entra Cervantes?
Questa e mille altre curiosità vengono soddisfatte leggendo “La camorra e le sue storie”, di Gigi Di Fiore (UTET, pagg.487, 24,50 euro). Si tratta di una delle più documentate e dettagliate storie di questa organizzazione criminale: forse più “plebea” della Cosa nostra” siciliana (ammesso che per la mafia si possa parlare di “nobiltà”), ma non per questo meno determinata, violenta, ramificata, pericolosa. Ma per tornare a De Cervantes: è il 1613, racconta Di Fiore, quando pubblica le dodici “Novelas ejemplares”, che comprende il racconto “Rinconete y Cortadillo”: “…che nel narrare le gesta di due amici, descrive le regole dell’associazione del Monipodio, gruppo di ladri, grassatori e assassini che ricalcava la confraternita della Guarduna di Siviglia…Proprio come sarebbe stato per le associazioni malavitose napoletane in epoche successive, luoghi di affiliazione per la confraternita erano essenzialmente le carceri…Esisteva poi una commistione tra malavitosi e gruppi del potere spagnolo…”.
Il sud d’Italia, all’epoca, era parte dell’impero di Spagna; Napoli era la “città fedelissima”, e si capisce: la spremevano senza pietà, imponendo pesantissime gabelle e tasse da rapina; c’era poi una massiccia occupazione militare in quella zona della città che prende non a caso il nome di Quartieri spagnoli. Dalla Spagna, annota Di Fiore, vengono anche importati “modelli comportamentali (spavalderia, un certo gusto al barocco nei modi di fare), abitudini violente (duelli pretestuosi, atteggiamenti di prevaricazione) di cui si facevano interpreti soprattutto i soldati, che si accompagnavano alle tantissime prostitute della zona del Gelso. Ma anche un altro modello, tutto negativo e dai nefasti effetti perpetuatisi nei secoli, arrivò dalla Spagna: la delinquenza che si faceva gruppo, con regole precise”. Quel sistema, insomma, raccontato da De Cervantes in “Rinconete y Cortadillo”. Del resto, la stessa parola “camorra” deriverebbe dal castigliano: rissa, litigio. Ma mentre in Sicilia il termine “camorra” ha assunto il significato di prepotenza, nel napoletano “fare la camorra” vuole dire ricavare un profitto in modo illegale, facendo ricorso alla violenza nel caso vi sia un riottoso che oppone resistenza e non si piega all’angheria. Altri – è sempre Di Fiore che ad aiutarci – individuano l’origine del termine in “gamurra”, un abito indossato prima in Spagna, poi dalla plebe napoletana; o ancora dal gioco della “morra”, su cui i malavitosi napoletani esercitavano quello che oggi si direbbe un vero e proprio racket.
Che questa particolare forma di criminalità organizzata sia d’importazione, naturalmente non giustifica e non attenua nulla, circa le responsabilità storiche e politiche di quanti hanno consentito che il fenomeno si ramificasse e si estendesse fino a diventare la vera e propria metastasi che soffoca e opprime non solo Napoli, non solo la Campania. Una presenza massiccia, capillare, una ragnatela tentacolare che controlla traffici di ogni tipo.
Oggi i clan possono contare su eserciti di uomini armati, veri e propri “soldati” organizzati e risoluti, disposti a eseguire l’ordine più feroce senza fiatare. Consola poco che questi clan siano in perenne lotta tra loro, e si combattano senza esclusione di colpi. Se si pensa che i killer dei clan numericamente parlando equivalgono a circa la metà degli agenti di polizia in servizio nella provincia di Napoli, che pareggiano quasi il numero dei carabinieri dislocati sul territorio, e superano di alcune centinaia i finanzieri del comando provinciale, ecco che si ha un quadro inquietante della situazione.
“E’ una brutta bestia, la camorra”, dicono gli investigatori di vecchio pelo. “La camorra è in continua trasformazione, un qualcosa di magmatico che cambia la pelle giorno dopo giorno. Anche per questo tutto è più difficile. Una settimana per esempio, in un determinato quartiere a farla da padrone c’era un clan; poi all’improvviso quel clan sparisce, non c’è più, si è cementata un’altra alleanza, sono cambiati gli interessi e gli scenari…”.
Una continua mutazione che è difficile comprendere. Come sempre è utile “inseguire” i soldi, la “roba”. Il segreto per capire è sempre quello, il movente è sempre il denaro. Capiti gli interessi in gioco, è relativamente facile individuare chi cerca di metterci le mani sopra. Così accade che clan e gruppi che sembravano consolidati, si frantumino, dalle loro ceneri ne sorgono altri; e tutto ciò richiede un continuo lavoro di aggiornamento e schedatura. Informazioni (e chi le può dare se non chi fa parte di quel mondo? E in cambio di cosa, le dà?), e capacità di penetrare in mentalità i cui percorsi di ragionamento non appartengono alla “normale” logica.
Per capire di che tipo di gente e di criminali si sta parlando, può essere utile studiare la storia di Carmela Attrice, una donna ammazzata qualche anno fa. E’ da manuale.
Una storia che anche Di Fiore racconta. La donna viveva nel rione “Case celesti” di Secondigliano, per tutti è “Pipetta”. Ha 47 anni, è la madre di Francesco Barone, vicino al gruppo degli “scissionisti” che ha tradito il clan Di Lauro. Colpevole il figlio, ma colpevole anche Pipetta: di avere il figlio che ha, ma anche di essersi rifiutata di abbandonare l’appartamento dove vive con la figlia diciassettenne. Per ucciderla, in due si nascondono nello scantinato del palazzo, un terzo si sistema all’esterno. Un quarto, infine (il commando, in tutto è composto da sette persone) suona al citofono e attira fuori la donna, che ignara cade nella trappola.
Proprio un’ora prima di ucciderla, uno dei sette è stato dalla donna, per tranquillizzarla sulle minacce ricevute nei giorni precedenti. Il più “vecchio” dei killer ha ventotto anni, il più giovane sedici. Uccidono a volto scoperto, in pieno giorno, spavaldi senza curarsi della presenza di testimoni, persone che li hanno visti crescere e li conoscono benissimo. Dopo il delitto non si danno neppure pena di allontanarsi: restano a guardare la scena. Impassibili assistono alla disperazione della figlia; indifferenti osservano magistrati e investigatori impegnati nei sopralluoghi di rito, commentano con sarcasmo l’agitarsi di giornalisti, fotografi e cameraman televisivi. E’ proprio questa estrema impudenza a tradirli. Qualche testimone alla fine li indica alla polizia, e vengono arrestati. Si scopre così il loro background: un passato fatto di consumo di droga e precedenti per spaccio; è così, passo dopo passo, che sono finiti preda dei clan.
E’ un libro prezioso, questo di Di Fiore: perché racconta di cose ignorate, che in tanti hanno interesse che si continuino ad ignorare. Eccoli, sfilano sotto i nostri occhi i protagonisti di mille storie sanguinose: da Salvatore De Crescenzo, primo “capintesta” della camorra, fino ai boss dei giorni nostri, più “vicini”, e familiari: Raffaele Cutolo, Pupetta Maresca, Michele Zaza, Lorenzo Nuvoletta, Carmine Alfieri, Pasquale Galasso, i Giuliano, per dirne di alcuni che a lungo hanno dominato e dominano le cronache crimina
li. “Anche quando i clan camorristici sembrano meno violenti e pericolosi”, annota Di Fiore, “il loro potere strisciante li rende insidiosi. E’ il regno della violenza per la violenza, dell’interesse, della totale assenza di valore per la vita umana, della flessibilità di criteri-guida. Vecchi, bambini, ragazzini: nessuna esistenza è più importante di un’altra. Per i camorristi sono tutte, allo stesso modo, un ‘nulla’. Uccidere, sopraffare, per esistere: è questo il volto della camorra del Duemila. Tutta da conoscere, ripercorrendo lunghe e sanguinose storie. Che cominciano cinque secoli fa”.
E’ una storia della camorra, ma anche delle commistioni e delle complicità con gli apparati statali; le connivenze e i reciproci “patti”: perché è evidente che holding criminali di queste dimensioni e questi interessi ramificati non possono reggersi sulle sole gambe di “cumparielli” semi-analfabeti.
La lettura del libro di Di Fiore ben s’accompagna a quella di “Senza mafie, verso Sud”, di Orfeo Notaristefano (Rubbettino, pagg.213, 15 euro). Calabrese orgoglioso delle sue origini, Notaristefano ci invita a non dimenticare che “c’è una Calabria che non si rassegna alla presenza della ‘ndrangheta. C’è una Sicilia che ha reagito all’ondata delle stragi di mafia degli anni Ottanta e Novanta…”. Da qualche parte c’è sempre qualche “padano” pronto a ricordare che la criminalità è una “palma” la cui linea viene da sud (ultimamente hanno però aggiornato il repertorio del luogo comune, che comprende anche gli extracomunitari), Chissà perché quell’imbecille “padano” dimentica sempre quella lunga lista di croci, ognuno un morto ammazzato: magistrati, carabinieri, poliziotti, sindacalisti, politici, giornalisti: tutti con un accento che tradiva l’origine siciliana, campana, calabrese: da Beppe Alfano a Giancarlo Siani, da Mario Francese a Giuseppe Fava; e Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Mauro De Mauro, Rosario Livatino, Boris Giuliano, Peppino Impastato, Pio La Torre, Placido Rizzotto, don Pino Puglisi, naturalmente Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e quanti altri certamente andrebbero citati, ma non basterebbero le pagine di tutta la rivista. A voler fare un monumento di queste vittime con “semplicemente” nome, cognome, data e luogo in cui vennero uccisi, ne avremmo un muro lunghissimo, infinito, da lasciare senza fiato.
Per limitarsi alla ‘ndrangheta calabrese: è, tra le mafie che opprimono il nostro Mezzogiorno (e ormai non solo quello), è forse l’organizzazione più chiusa, più feroce, più inquietante; proprio perché dà meno nell’occhio, “lavora” di preferenza sotto traccia e di rado fa ricorsoal delitto “eccellente” (l’uccisione del giudice di Cassazione Scoppelliti, o il recente delitto, in un seggio elettorale durante le “primarie” dell’Unione, del vice-presidente del Consiglio regionale calabrese Francesco Fortugno).
La Direzione Nazionale Antimafia recentemente ha elaborato una “mappa” da cui emerge che i clan della ‘ndrangheta hanno ramificati ed enormi interessi un po’ ovunque: Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Marche, Sardegna, Toscana, Sicilia, Lazio, Basilicata…e naturalmente Calabria. Si va dal traffico internazionale di droga alla prostituzione, dal riciclaggio attraverso l’edilizia allo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi, l’usura, gli appalti pubblici, il traffico di armi, le estorsioni, il gioco d’azzardo. Dal solo traffico di cocaina, la ‘ndrangheta – che ha stretto un patto di ferro con i narcos sudamericani e colombiani in particolare – ricava qualcosa come 22 miliardi di euro l’anno; una massa spaventosa di denaro superiore ai guadagni di “Cosa Nostra”, che si deve “accontentare” di “soli” 18 miliardi (la camorra è a quota 16). Se si calcola che la ‘ndrangheta ogni anno realizza anche altri cinque miliardi da attività “coperte”, tre miliardi dalla prostituzione, quattro dall’usura, due dal traffico delle armi, abbiamo davanti a noi un quadro terrificante: più di un terzo di quei 100 miliardi (di euro, naturalmente) che ogni anno vengono lucrati dalle organizzazioni criminali.
A fronte di tutto ciò, cosa si oppone? Tanta buona volontà di pochi. In sostanza un poliziotto, un carabiniere, un magistrato si trova in mano un secchiello – a volte bucato – e gli si dice: “Vuota il mare”. Per dare un’idea sull’esiguità di uomini e mezzi: per contrastare l’infiltrazione delle ‘ndrine nei lavori pubblici e negli appalti edilizi nella provincia di Reggio Calabria sono al lavoro 126 uomini; i comuni da controllare sono 97. Per l’intera regione gli uomini del Nucleo Operativo Ecologico sono dodici: devono contrastare l’abusivismo, l’edificazione di grandi complessi turistici e alberghieri fuorilegge, occuparsi dello smaltimento illegale di rifiuti pericolosi. C’è poi quello che il prefetto Luigi De Sena, inviato a Reggio Calabria con poteri straordinari dopo il delitto Fortugno, definisce “il vero reddito criminale costante”, cioè quello che proviene dalle infiltrazioni mafiose nelle forniture di beni e servizi sanitari: “Del resto, con oltre 3 miliardi all’anno di spesa regionale, il 64 per cento del bilancio complessivo, si può facilmente capire quali siano gli interessi delle cosche”.
Cosa si può e si deve fare? “Non ho dubbi”, dice De Sena. “La possibilità di consultare l’anagrafe dei conti correnti e dei depositi con accessi diretti”. Siamo insomma ancora a quel che Leonardo Sciascia suggeriva di fare, quando nel 1961 scrisse “Il Giorno della civetta”: “Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i vicini di casa della famiglia, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli e le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi e a tirarne il giusto senso…”.
Il “giusto senso”: è quello che tira Notaristefano con il suo “Senza mafie, verso il Sud”: libro di denuncia e di speranza. Perché un riscatto e non solo una resistenza, sono possibili. Perché sono tanti, ormai, “a preferire il rumore del mare”. Anche “loro” sono tanti, e sono potenti e prepotenti. Ma sono umani, e come tutte le cose dell’uomo hanno un inizio e hanno una fine. Racconta, Notaristefano, che un mondo migliore è fatto anche di piccole cose. Come quel dibattito fatto a Marano Equo, paesino di novecento persone, ed erano tutte lì assiepate e interessate a un tema all’apparenza ostico: la sclerosi laterale amiotrofica. Stiamo parlando di quella malattia che alla fine ha stroncato Luca Coscioni, dopo averlo paralizzato per dieci lunghi anni su una poltroncina, e per comunicare solo un complicato sistema di computer che poteva azionare con il movimento di un dito. Come Coscioni, quanti? Luca ha fortissimamente voluto trasformare la sua disgrazia in lotta politica, in opposizione agli assurdi divieti alla ricerca scientifica, in nome di una fede che poco o nulla ha del credente e tanto ha di un’ideologia crudele e senza misericordia. Sapeva bene, Luca di essere condannato, ma non ha mollato un istante un solo minuto secondo. Cosa c’entra con la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra? C’entra eccome. E’ la stessa cappa, la stessa oppressione, da contrastare e vincere. Perché davvero sono tempi in cui la cosa eccezionale è riuscire a fare le cose normali.