«Ricordo un amico, un medico, ci conoscevamo da anni. Lo abbiamo curato perfino con esasperazione perché non lo volevamo perdere. Stava attaccato a un respiratore artificiale, altrimenti sarebbe morto, era la metà degli anni Settanta e già allora la tecnica dava queste possibilità. Parlavamo ogni giorno e una volta, lo sguardo fermo, mi ha detto: io non posso più vivere senza questo respiratore, perciò ti prego, staccami».
E lei, don Verzé, cosa fece?
«Era molto presto, le sette del mattino. Piangendo dal cuore dissi: staccatelo». Don Luigi Verzé, 86 anni, fondatore dell’ospedale, del centro ricerche e dell’Università San Raffaele, indica il grande Crocifisso ligneo del Trecento che domina il suo studio: «Lo hanno fatto morire, certo. Ma Lui poteva scendere dalla Croce e invece si è lasciato morire: per amore». Oggi l’Università Vita-Salute conferirà al cardinale Carlo Maria Martini la laurea
honoris causa in Medicina e Chirurgia nel nuovo corso «Medicina Sacerdozio». Proprio il cardinale Martini, nel «dialogo sulla vita» con Ignazio Marino, sull’Espresso, aveva riflettuto intorno alle «zone grigie» aperte dal progresso scientifico. «Dalla mia esperienza ho capito che le zona grigie esistono, Martini ha ragione».
L’eutanasia è una di queste?
«Per come se ne discute, spesso è un falso problema: diverso è “lasciar” morire e “fare” morire. Tenere in vita una persona a tutti costi è ostinazione, non conservazione della vita. Se una persona vive così, solo grazie alle macchine, e chiede lucidamente di essere staccata, io credo che farlo possa essere un atto d’amore, un gesto cristiano. Non è eutanasia. È essenziale anche l’atteggiamento del medico».
In che senso?
«Il mio amico era lucido. Un sant’uomo, cattolico. A me ha inflitto un grandissimo dolore, però non me la sono sentita di non dire: basta. Ero consapevole dell’impotenza mia e della scienza. Ecco: un conto è riconoscere la propria ignoranza come medici; un altro è arrogarsi il diritto di decidere quando uno deve morire. Penso a quando non appare la coscienza, come nel caso Terry Schiavo: non ho diritto di lasciar morire una persona che non può esprimersi».
E il testamento biologico?
«Non posso accettarlo perché di fatto viene dettato dal medico. Questo è l’errore, lo spiegherò al mio amico Veronesi. Del resto nessuno può mettersi nei panni di se stesso quando si dovesse ammalare né sapere come reagirebbe alla sofferenza, è un atto di superbia. E poi cosa ne sappiamo di dove sarà la scienza in futuro?»
Quindi come si fa? Pensiamo al caso Welby…
«Non conosco il caso di Welby. Dipende dalla persona: temo sia impossibile definire una legge su questi casi, una sorta di prepotenza. Difficile è anche stabilire cos’è l’accanimento terapeutico: siamo nella “zona grigia”. Allora bisogna educare la gente alla responsabilità».
Ovvero?
«Al San Raffaele ci confrontiamo ogni giorno con i limiti, li tocchiamo. La Chiesa fa benissimo a porli e a difendere la vita, sia chiaro. E io odio la morte, non riesco neanche ad ammazzare una mosca. Però non fisso mai dei limiti ai ricercatori: chiedo loro di essere responsabili. Se uno vuole sperimentare sugli embrioni gli dico: attento a non ucciderlo. Chiedo di calcolare i rischi con saggezza. I limiti sfumano, all’inizio molti pazienti sono morti dopo i trapianti e la Chiesa era contraria, ma oggi le cose sono cambiate».
Ma cosa vuol dire «essere responsabili»?
«Questo è il senso del corso “Medicina Sacerdozio”. Nessuno è sacerdote se non è medico, nessuno è medico se non è sacerdote. Ci siamo posti come programma lo studio di che cosa è l’uomo per arrivare a rispondere alla domanda: chi è l’uomo? La svolta è prendere in cura l’uomo come quella sintesi di corpo, intelletto e spirito che fa di lui in ogni caso, anche il più miserabile, l’immagine di Dio. Ma per questo bisogna che le culture dialoghino, la cultura è la sola superpotenza: non a caso il San Raffaele comprende un polo umanistico e uno scientifico».
Cosa manca oggi?
«Lo studio, un’educazione al senso della sofferenza e della morte. Parliamone in maniera laica: morire con dignità è una dimostrazione di come si è vissuti. Ma tutto questo è frutto di una educazione. Una resa alla propria morte può essere anche un abbandonarsi alla volontà e all’amore di Dio. Io spero che il mio morire sia così: un abbraccio fisico con Dio. Penso a una signora anziana, distinta, che soffriva da tempo nel proprio letto e continuava a ripetere: “Oh Signore fammi morire..”. Poi mi guardò e disse: “Dì al Signore che mi prenda, io non riesco a morire”».
E cosa accadde?
«Una persona che era accanto a me si avvicinò, le diede una carezza, e la signora morì. Si è spenta così, in quell’istante: aspettava un atto d’amore».