Piergiorgio Welby ha deciso, non chiederà altri permessi. Non sapremo il giorno, non sapremo l’ora, non sapremo chi materialmente staccherà la spina. Ma morirà come ha chiesto, senza rimanere ancora attaccato alle macchine per chissà quanto tempo. Lui ora la chiama «disobbedienza civile». La parola «eutanasia» è improvvisamente scomparsa dal suo linguaggio, dopo che con un atto dirompente – appena due mesi fa -l’aveva portata sulla bocca di tutti.
L’ultimo disperato messaggio lo ha affidato al Parlamento: «Non mi resta altro che disobbedire». È una lettera breve, che apposta non ripropone la parola eutanasia e apposta sembra tenersi sul vago, ma forte e chiara ed è indirizzata ai presidenti e ai membri delle commissioni Sanità e Giustizia delle Camere. «Nonostante la mia pubblica richiesta di essere sedato per staccare il respiratore – scrive Welby -, nessuno vuole prendersi questa responsabilità. Quindi l’unica via percorribile resta quella della disobbedienza civile che – insieme a Marco Pannella e ai compagni Radicali – non potremo far altro che mettere in pratica un giorno da decidere… firmato…». Ci sarà tempo per capire se chi ha deciso di aiutarlo incorrerà in una fattispecie di reato e nel caso che tipo di reato. Perché la legge è chiara e parla di omicidio, staccare il respiratore a Welby – secondo l’attuale codice che ancora non prevede il testamento biologico e non ha definito i confini dell’accanimento terapeutico – equivale a uccidere. Welby ha parlato anche di questo e proprio oggi, insieme all’annuncio, combatterà anche l’ultima battaglia politica perché se ne parli ancora, anche dopo. Si tratta del suo libro che si intitola semplicemente Lasciatemi morire e che oggi appunto sarà in tutte le librerie edito da Rizzoli. Tra le pagine c’è la sua storia, le ragioni che lo hanno spinto due mesi fa a scrivere al Capo dello Stato Napolitano per chiedere aiuto, ma anche un’analisi cruda di una realtà che nessuna legge vuole regolamentare. Parla delle tante Terry Schiavo e di se stesso, spiega perché ai malati è dovuta una risposta. Scrive ad esempio un pomeriggio di tre anni fa: «II patto con la mia asburgica compagna era chiaro: lasceremo che la malattia faccia il suo corso e accetteremo l’inevitabile. Dopo una «agonia» di due settimane e il rifiuto del ricovero richiesto dal medico, quando ero a un passo dalla meta… prima di andare in coma ho chiesto aiuto. La mia vera tragedia nasce dal momento in cui la Schett decide, contravvenendo al nostro patto, di telefonare al 118! Diceva Johann Gottfried Herder che i due più grandi tiranni della Terra sono il caso e il tempo: io li ebbi entrambi contro. Fu un caso che il 14 luglio alle ore 17,00 la circonvallazione fosse priva di traffico, alle 18,00 per fare un chilometro ci sarebbe voluta più di mezz’ora, e il tempo mi consegnò al rianimatore con i neuroni non ancora in necrosi. Fu un caso che la rianimazione del Santo Spirito avesse un posto libero. A questo punto la decisione “criminale” di una dottoressa mi restituì alla vita… Quale vita?»… Sabato prossimo l’associazione Luca Concioni ha organizzato una raccolta di firme perché il Parlamento affronti la discussione. Perché da quando il caso Welby è esploso, da quando è stata istituita una Commissione con il compito di esaminare le otto proposte di legge sull’eutanasia e sul testamento biologico, sono passati due mesi e nulla si è raggiunto.
Non sappiamo quando Welby deciderà di farsi staccare la spina; nessuno, né i Radicali, né l’Associazione Coscioni sul punto ha più nulla da aggiungere. Salvo denunciare il silenzio. Che ancora ieri, di fronte a un annuncio drammatico, è stato rotto solo da tre parlamentari, una è di Forza Italia a dimostrazione che le posizioni sul tema sono ancora una volta trasversali. Chiara Moroni ha chiesto a Welby di aspettare: «Non faccia gesti estremi». E con i colleghi di Prc e Verdi ha promesso: «Una risposta adesso la daremo».