Quando, non ancora maggiorenne, Piergiorgio Welby si è sentito dire che aveva una distrofia muscolare, il medico che gliel’ha diagnosticata ha aggiunto cinque parole: «Non supererà i vent’anni».
Oggi ne ha sessanta. La malattia è avanzata, Welby vive grazie a un respiratore che lavora per lui, a una sonda che gli riempie lo stomaco, e a una moglie, Mina, che lo ama. È uscito dall’anonimato della sua sofferenza privata il 22 settembre scorso, quando ha indirizzato una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiedendo di «poter ottenere l’eutanasia». Ora Welby ribadisce il concetto, con un libro in vendita da ieri, il cui titolo ha la stessa inequivocabile determinazione delle parole rivolte al capo dello Stato: “Lasciatemi morire” (Rizzoli, 147 pagine, 9 Euro).
Dentro c’è la storia di Welby: la diagnosi risalente al 1963, il lento deteriorarsi dei muscoli, la fuga nelle droghe, lo sgocciolio progressivo delle capacità vitali, la richiesta al padre, mentre sono a caccia insieme: «Sparami». Fino al disfacimento del corpo, oggi tenuto in vita dalle macchine. La mente è lucida: Welby racconta l’incontro con Mina, l’amore. Lei fa un patto con lui: sanno che la morte più probabile è per arresto respiratorio. La distrofia sfianca i polmoni. «Se avrò una crisi respiratoria non voglio che chiami soccorso. Non voglio accettare la tracheostomia, un atto chirurgico cruento che mi renderebbe schiavo di un ventilatore polmonare». Il 14 luglio 1997 Welby accusa un’insufficienza respiratoria e va in coma. Accade il secondo imprevisto, dopo la diagnosi sbagliata del medico 34 anni prima. «Mina non è riuscita ad accettare di perdermi, l’ambulanza ha trovato tutti i semafori verdi, nessuna fila d’attesa al Pronto soccorso, ho subito l’intervento. Sono tracheostomizzato». Soprattutto, vivo. Forse è successo quello che Welby scrive poco dopo: «Ogni strategia tesa a esorcizzare l’epifania della nostra morte naufraga contro l’ineludibile realtà della morte dell’altro».
Adesso Welby dice di essere «già morto una volta»: «Io maledico i medici e il loro tubi infernali. Rivoglio la mia morte: niente di più, niente di meno!». Le pagine scorrono tra le poesie, il racconto crudo, carnale, di una sopravvivenza percepita come intollerabile, («più inutile del buco di una scarpa»), la riflessione sul tema dell’eutanasia. Lontanissima dalla teoria, dalla retorica, dall’astrazione. Welby spiega le differenze tra eutanasia attiva, passiva, suicidio assistito, accanimento terapeutico. La richiesta è chiarissima: disciplinare l’eutanasia in Italia. Indica sei punti: la certezza sulla spontaneità della richiesta del paziente, la convinzione sull’insopportabilità delle sofferenze, la piena consapevolezza, la certezza – condivisa col medico – dell’assenza di alternative, il parere di un secondo medico esterno, la correttezza della “pratica” di quella che Welby chiama «interruzione della vita». «Io spero», scrive, «che l’ineluttabilità del morire sia in futuro un traguardo da raggiungere senza essere costretti a percorrere gli ultimi metri maledicendo ogni passo e chiedendo un po’ di pietà».
Eppure, quando incede spiegando che «l’eutanasia è libertà», che «bisogna capire quando si è giunti alla fine della strada, quando a proposito di Terri Schiavo parla non di «cinismo» ma di «empatia», quando alla domanda «c’è un senso nella vita? E nella morte?», si risponde che «è inutile porsi domande che non possono avere risposta», quando contesta la teoria del “piano inclinato” (secondo cui la legge sull’eutanasia aprirebbe il varco a una incontrollata somministrazione della morte), si avverte come uno stridore con gli “imprevisti” che ha raccontato. Tornano alla mente le parole di una donna che, per usare l’espressione di Welby, si è «sporcata le mani con questo impasto di desideri, necessità, paure, eroismi e vigliaccherie che si chiama uomo». Ha detto Oriana Fallaci: «Inutile dichiarare che in un caso simile a quello di Terri vorrai staccare la spina, morire stoicamente (…) E se nel Testamento Biologico scrivi che in caso di grave infermità vuoi morire ma al momento di guardare la Morte in faccia cambi idea? Se a quel punto t’accorgi che la vita è bella anche quando è brutta ma non sei più in grado di dirlo?».
Per Welby la vita è brutta. È in grado di dirlo e lo dice. Salvo un altro imprevisto.