E allora è aperta la caccia all’”homo democraticus”, il futuro elettore ed elettrice del partito nuovo, di cui si sa praticamente tutto sul piano politico, e si sa invece piuttosto poco o quasi niente sulle sue preferenze, sui gusti, sulle letture, su ciò che guarda e ascolta, insomma della sua antropologia culturale.
Sarà pure essenziale sapere che il 65 per cento dei “democratici” si considera semplicemente “di centrosinistra”, proprio come si dichiarò una volta Arturo Parisi, sciogliendo in tal modo il dilemma esistenziale e politico fra centro e sinistra. Ma forse è ancora più interessante esaminare le preferenze culturali dei delegati diessini presenti al Mandela Forum di Firenze, che fra gli intellettuali di riferimento hanno spedito al vertice della classifica Antonio Gramsci, ma senza fargli toccare il 20 per cento dei consensi: e dopo un’infilata di filosofi in sequenza da Bobbio a Marx, seguiti da Kant, Popper, Hegel, Socrate, Voltaire, Rousseau, quasi il 40 per cento ha semplicemente e “democraticamente” disperso il voto.
Il che significa che almeno sul piano culturale il Partito democratico non ha ipoteche. Non si trascina dietro eredità troppo ingombranti. È, o sarà, un insieme eterogeneo a sufficienza per garantire l’assenza di egemonie. Se è vero infatti che i delegati ds eleggono romanticamente Enrico Berlinguer al rango di più grande uomo politico italiano del Novecento, le donne della Margherita se ne fregano della contiguità centrista con il candidato terzista Bayrou, e nel nome della solidarietà di genere plebiscitano senza tante storie la collega Ségolène.
Insomma, l’identikit dell’homo democraticus è ancora incerto e aperto (per fortuna), e ciò dovrebbe garantire l’esercizio di un pensiero libero e di opzioni svincolate da ideologie vecchie e nuove. Perché è praticamente sicuro che a proposito del Pantheon di Walter Veltroni il consenso generale dovrebbe essere indiscutibile, in quanto nessuno obietta a una galleria ideale che riunisce il Mahatma Gandhi e John F. Kennedy, Martin Luther King e Nelson Mandela. Il buon democratico può infilare nel lettore il dvd di Walter Veltroni, Che cos’è la politica, Luca Sassella editore, e godersi la “lectio magistralis” del futuro probabile candidato alla leadership, godendosi ugualmente le citazioni di Vittorio Foa e di Saint-Exupéry. Non manca neppure Tocqueville, che ha il vantaggio di piacere anche all’ala liberale.
Ma poi bisogna vedere quali sono i riferimenti fuori dal Pantheon, nella condizione amorfa e opaca della contemporaneità. Probabilmente l’intellettuale di riferimento sarà Zygmunt Bauman, l’autore della definizione della società «liquida», aggettivo in cui sembra di sentire scorrere il flusso vorticoso della globalizzazione, con i suoi detriti e gorghi di precarietà e di incertezza. Qualcuno, grazie alla vecchia lezione di Salvatore Veca e poi di Michele Salvati, rileggerà volentieri qualche pagina dell’opera somma di John Rawls, Una teoria della giustizia,per ricordare che dalle secche del conflitto si esce con il contratto sociale.
Oppure andrà benissimo qualche riferimento al grande indiano Amartya Sen, l’economista filosofo che ha smontato l’ideologia del Pil come indicatore assoluto, spiegando come il benessere sia una funzione complessa, una derivata della qualità della vita, e quindi inafferrabile dal lato esclusivamente quantitativo.
Una certa souplesse rispetto ai dati economici è utile per non nutrire complessi di inferiorità verso il consumo e perfino lo shopping: sicché la donna democratica nutrirà sicuramente un culto per le grandi icone della filosofia novecentesca, da Hannah Arendt alla rivisitatissima filosofa spagnola Maria Zambrano (costretta a quarant’anni di esilio sotto il franchismo) , e allo studio del nuovo umanesimo di Martha Nussbaum, ma all’occorrenza potrebbe anche concedersi qualche ora di relax con un romanzino di Sophie Kinsella,la scrittrice che meglio ha penetrato l’universo simbolico degli acquisti e lo scenario filosofico dei grandi magazzini. Perché no?
Da ciò si dovrebbe capire quanto sia cambiato lo scenario intellettuale e la vista sul mondo contemporaneo, per le donne come per gli uomini. Perché è vero che, volendo, il riferimento naturale dell’immaginario democratico è il vecchio Come eravamo, con le due star anche ideologiche Barbra Streisand e Robert Redford. E che chiunque può fare una buona figura democratica citando La vita è bella o Train de vie e anche Schindler’s List, oppure, per i cinefili, i film più visionari e amati di Kubrik e Ridley Scott.
Ma qualsiasi sondaggio serio mostrerebbe che il film democratico di culto, perle donne del futuro Pd, è da sempre Pretty Woman, cioè «voglio la favola» e Richard Gere per marito (qualche problemino identitario può emergere se è vero, com’è vero, che anche gli uomini considerano Pretty Woman un film irresistibile, sarà per via della così facile disponibilità di Julia Roberts, ma anche per un’identificazione totale con il protagonista, il tycoon che si smarrisce interclassisticamente e si ritrova nel più improbabile e gratuito degli amori).
E si otterrebbe un vero entusiasmo accennando ai telefilm più “americani”: soprattutto segnalando il più potente capolavoro di queste ultime stagioni, Dr. House, in cui il cinismo del medico protagonista non nasconde la competenza, la dedizione, la professionalità, cioè l’aspetto più “cool” della nuova sinistra, quella che ha scelto il “realismo utopico” e quindi ha le passioni sotto controllo.
In sostanza il cambiamento riguarda soprattutto un certo eclettismo, un’ordine di praticabilità, il passaggio da pensieri troppo forti ai pensieri deboli e accettati in quanto tali. Certo, ci vuole una seria critica dell’economia post reaganiana, una concezione anti-liberista come quella di Paul Krugman o una critica come quella di Joseph Stiglitz rivolta alla globalizzazione gestita dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario. Ma la scena mentale dell’homo democraticus accetta poi facilmente l’idea che per fare funzionare l’economia non ci vogliono troppe ubbie vetero-socialiste, e difatti anche a Firenze l’uomo delle lenzuolate, Pier Luigi Bersani, ha spopolato esclamando: «Compagni, le liberalizzazioni sono di sinistra!», sollevando un applauso che avrebbe fatto felice l’ispiratore della Terza via blairiana, Tony Giddens (sui cui manuali, come il classico Fondamenti di sociologia, hanno studiato intere generazioni di studenti italiani: da cui si potrebbe anche trarre l’idea che il riformismo non piove dal cielo, ma semmai dai buoni libri).
Il senso di fondo è che nell’epoca delle non-ideologie le riforme buone «sono quelle fatte da noi», soprattutto se quegli altri, la destra, nei loro cinque anni di legislatura, si sono ben guardati di liberalizzare alcunché. E se i berlusconiani, i forzisti, si sono appropriati dell’azzurro, i futuri democratici sono passati alla riscossa prendendosi il blu. Il blu del povero Rino Gaetano, cantautore bravo e ironico morto in un incidente d’auto nel 1981, capace allora di infilare in una canzone popolare (Aida) parole inusuali come «la costituente, la democrazia», ma anche, adesso, di far chiudere il congresso di Firenze con il popolo ex comunista ed ex diessino che canta in coro «ma il cielo è sempre più blu…».
Dev’essere chiaro che il blu democratico non è un succedaneo emotivo del rosso tradizionale della sinistra. Ci vuole poco infatti, basta la playlist preparata da Luca Sofri per Piero Fassino, per capire che il blu ha una storia, una tradizione progressista. Al forum Mandela si è ascoltata la voce di Caterina Caselli che ev
ocava nel cielo del partito democratico «le macchie di blu» che si spalancano in È la pioggia che va, storico pezzo dei Rokes di Shel Shapiro, anno 1966. Ottimo: senza pedanterie, occorre riprendere il filo che negli anni Sessanta, nella fase del bipolarismo perfetto fra Beatles e Rolling Stones, si è spezzato, dividendo il mondo fra gli impegnati e i non so, fra la musica politica e la musica di consumo. Anche allora c’era il centrosinistra. La speranza è che questa volta la lieve euforia “democratica”, che pure poteva essere più intensa, non si dissolva, e che non arrivino anni plumbei: culturalmente, s’intende.