RADICALI ROMA

Prodi, sii volenteroso: riforma la burocrazia

Dicono Nicola Rossi e Paolo Messa nella premessa poli­tica a questo manifesto dei Volenterosi, che il loro obiettivo è porre all’evidenza del sistema po­litico alcuni temi economici su cui adoperarsi con misure possibi­li e riformiste. Le tre priorità che i Volenterosi individuano sono il welfare (interventi di Giuliano da Empoli, Alberto Alesina, Roberto Cicciomessere, Maurizio Ferrera e Daniele Capezzone),le liberaliz­zazioni (Franco Debenedetti, Chicco Testa, Alberto Mingardi e Bruno Tabacci) e l’efficienza del­la pubblica amministrazione (Gu­stavo Piga, Pietro Ichino, Fiorella Kostoris e Antonio Polito).
 
Stando alle cronache, nessuna spinta riformista, nessun tentati­vo di influenzare l’agenda di poli­tica economica di questo gover­no, per il momento è riuscito. La riforma del welfare è un tema so­stanzialmente accantonato, il pac­chetto di liberalizzazioni propo­sto da Pierluigi Bersani è interes­sante, d’accordo, ma non è basta­to a sconfiggere i tassisti, né a por­re all’evidenza di una classe diri­gente distratta, a sinistra e a de­stra, l’insostenibilità delle spinte corporative. Quanto alla pubblica amministrazione, la questione è talmente compenetrata  al nostro carattere nazionale, che è quasi impossibile trasformarla nel capi­tolo di un’agenda politica in tem­pi ragionevolmente brevi. Anzi sembra già un miracolo il fatto che alcuni elementi delle propo­ste scaturite da un dibattito inne­scato lo scorso anno proprio sul Corriere della Sera – con un’inter­vista di Nicola Rossi, seguita da al­cuni articoli di Francesco Giavazzi e Pietro Ichino – siano diventati oggetto di una prima discussione con il sindacato.
 
Naturalmente, proprio per ciò, il tentativo dei Volenterosi è un buon punto di partenza per una battaglia che va combattuta te­nendo d’occhio l’orizzonte politi­co, ma che dev’essere costruita anche con gli strumenti di una campagna culturale. Da questo punto di vista, forse la parte più interessante di queste proposte è quella sulla pubblica amministrazione, la più difficile, ma anche la più razionale. Tagliare la spesa pubblica inefficiente è il modo più immediato per liberare risor­se da destinare all’abbattimento delle aliquote fiscali o, per esem­pio, a una riforma equa degli am-mortizzatori sociali. Gustavo Piga ricorda nel suo intervento che spendiamo in stipendi per il per­sonale l’8,3% del pil, in linea con la media europea, sì, ma negli Usa la percentuale è del 5,3%. Tra il 2000 e il 2005 l’aumento del costo del lavoro nel pubblico impie­go è stato pari a mezzo punto di pii. E non c’è nessun segnale di in­versione della tendenza, come si è visto con il recente rinnovo con­trattuale. Così come, dopo una brevissima stagione di risparmi, non ci sono segnali di alleggeri­mento della spesa per gli acquisti di beni e servizi, un altro 8,3 per cento del pil.
 
Entrambe queste voci incorpo­rano margini per tagliare le spese. (Ecco uno dei mille esempi possi­bili: le province sono universal­mente considerate strutture con funzioni inutili oppure assorbibili da altri organismi già esistenti. Hanno complessivamente 57 mi­la dipendenti. A un costo medio di 35 mila euro l’anno a testa, val­gono circa due miliardi l’anno).
 
Nota Antonio Polito che questi costi devono avere come contro­parte il controllo sulla qualità del servizio. Osservazione molto sen­sata. Ma l’impressione suscitata dall’attuale discorso pubblico è che porre il tema della qualità dei servizi – soprattutto se commisu­rati al livello delle prestazioni fi­scali – ragionare cioè in termini contrattualistici, sia considerato ancora una forma di inciviltà poli­tica e sociale.

Dicono Nicola Rossi e Paolo Messa nella premessa poli­tica a questo manifesto dei Volenterosi, che il loro obiettivo è porre all’evidenza del sistema po­litico alcuni temi economici su cui adoperarsi con misure possibi­li e riformiste. Le tre priorità che i Volenterosi individuano sono il welfare (interventi di Giuliano da Empoli, Alberto Alesina, Roberto Cicciomessere, Maurizio Ferrera e Daniele Capezzone),le liberaliz­zazioni (Franco Debenedetti, Chicco Testa, Alberto Mingardi e Bruno Tabacci) e l’efficienza del­la pubblica amministrazione (Gu­stavo Piga, Pietro Ichino, Fiorella Kostoris e Antonio Polito).
 
Stando alle cronache, nessuna spinta riformista, nessun tentati­vo di influenzare l’agenda di poli­tica economica di questo gover­no, per il momento è riuscito. La riforma del welfare è un tema so­stanzialmente accantonato, il pac­chetto di liberalizzazioni propo­sto da Pierluigi Bersani è interes­sante, d’accordo, ma non è basta­to a sconfiggere i tassisti, né a por­re all’evidenza di una classe diri­gente distratta, a sinistra e a de­stra, l’insostenibilità delle spinte corporative. Quanto alla pubblica amministrazione, la questione è talmente compenetrata  al nostro carattere nazionale, che è quasi impossibile trasformarla nel capi­tolo di un’agenda politica in tem­pi ragionevolmente brevi. Anzi sembra già un miracolo il fatto che alcuni elementi delle propo­ste scaturite da un dibattito inne­scato lo scorso anno proprio sul Corriere della Sera – con un’inter­vista di Nicola Rossi, seguita da al­cuni articoli di Francesco Giavazzi e Pietro Ichino – siano diventati oggetto di una prima discussione con il sindacato.
 
Naturalmente, proprio per ciò, il tentativo dei Volenterosi è un buon punto di partenza per una battaglia che va combattuta te­nendo d’occhio l’orizzonte politi­co, ma che dev’essere costruita anche con gli strumenti di una campagna culturale. Da questo punto di vista, forse la parte più interessante di queste proposte è quella sulla pubblica amministrazione, la più difficile, ma anche la più razionale. Tagliare la spesa pubblica inefficiente è il modo più immediato per liberare risor­se da destinare all’abbattimento delle aliquote fiscali o, per esem­pio, a una riforma equa degli am-mortizzatori sociali. Gustavo Piga ricorda nel suo intervento che spendiamo in stipendi per il per­sonale l’8,3% del pil, in linea con la media europea, sì, ma negli Usa la percentuale è del 5,3%. Tra il 2000 e il 2005 l’aumento del costo del lavoro nel pubblico impie­go è stato pari a mezzo punto di pii. E non c’è nessun segnale di in­versione della tendenza, come si è visto con il recente rinnovo con­trattuale. Così come, dopo una brevissima stagione di risparmi, non ci sono segnali di alleggeri­mento della spesa per gli acquisti di beni e servizi, un altro 8,3 per cento del pil.
 
Entrambe queste voci incorpo­rano margini per tagliare le spese. (Ecco uno dei mille esempi possi­bili: le province sono universal­mente considerate strutture con funzioni inutili oppure assorbibili da altri organismi già esistenti. Hanno complessivamente 57 mi­la dipendenti. A un costo medio di 35 mila euro l’anno a testa, val­gono circa due miliardi l’anno).
 
Nota Antonio Polito che questi costi devono avere come contro­parte il controllo sulla qualità del servizio. Osservazione molto sen­sata. Ma l’impressione suscitata dall’attuale discorso pubblico è che porre il tema della qualità dei servizi – soprattutto se commisu­rati al livello delle prestazioni fi­scali – ragionare cioè in termini contrattualistici, sia considerato ancora una forma di inciviltà poli­tica e sociale.

Dicono Nicola Rossi e Paolo Messa nella premessa poli­tica a questo manifesto dei Volenterosi, che il loro obiettivo è porre all’evidenza del sistema po­litico alcuni temi economici su cui adoperarsi con misure possibi­li e riformiste. Le tre priorità che i Volenterosi individuano sono il welfare (interventi di Giuliano da Empoli, Alberto Alesina, Roberto Cicciomessere, Maurizio Ferrera e Daniele Capezzone),le liberaliz­zazioni (Franco Debenedetti, Chicco Testa, Alberto Mingardi e Bruno Tabacci) e l’efficienza del­la pubblica amministrazione
(Gu­stavo Piga, Pietro Ichino, Fiorella Kostoris e Antonio Polito).
 
Stando alle cronache, nessuna spinta riformista, nessun tentati­vo di influenzare l’agenda di poli­tica economica di questo gover­no, per il momento è riuscito. La riforma del welfare è un tema so­stanzialmente accantonato, il pac­chetto di liberalizzazioni propo­sto da Pierluigi Bersani è interes­sante, d’accordo, ma non è basta­to a sconfiggere i tassisti, né a por­re all’evidenza di una classe diri­gente distratta, a sinistra e a de­stra, l’insostenibilità delle spinte corporative. Quanto alla pubblica amministrazione, la questione è talmente compenetrata  al nostro carattere nazionale, che è quasi impossibile trasformarla nel capi­tolo di un’agenda politica in tem­pi ragionevolmente brevi. Anzi sembra già un miracolo il fatto che alcuni elementi delle propo­ste scaturite da un dibattito inne­scato lo scorso anno proprio sul Corriere della Sera – con un’inter­vista di Nicola Rossi, seguita da al­cuni articoli di Francesco Giavazzi e Pietro Ichino – siano diventati oggetto di una prima discussione con il sindacato.
 
Naturalmente, proprio per ciò, il tentativo dei Volenterosi è un buon punto di partenza per una battaglia che va combattuta te­nendo d’occhio l’orizzonte politi­co, ma che dev’essere costruita anche con gli strumenti di una campagna culturale. Da questo punto di vista, forse la parte più interessante di queste proposte è quella sulla pubblica amministrazione, la più difficile, ma anche la più razionale. Tagliare la spesa pubblica inefficiente è il modo più immediato per liberare risor­se da destinare all’abbattimento delle aliquote fiscali o, per esem­pio, a una riforma equa degli am-mortizzatori sociali. Gustavo Piga ricorda nel suo intervento che spendiamo in stipendi per il per­sonale l’8,3% del pil, in linea con la media europea, sì, ma negli Usa la percentuale è del 5,3%. Tra il 2000 e il 2005 l’aumento del costo del lavoro nel pubblico impie­go è stato pari a mezzo punto di pii. E non c’è nessun segnale di in­versione della tendenza, come si è visto con il recente rinnovo con­trattuale. Così come, dopo una brevissima stagione di risparmi, non ci sono segnali di alleggeri­mento della spesa per gli acquisti di beni e servizi, un altro 8,3 per cento del pil.
 
Entrambe queste voci incorpo­rano margini per tagliare le spese. (Ecco uno dei mille esempi possi­bili: le province sono universal­mente considerate strutture con funzioni inutili oppure assorbibili da altri organismi già esistenti. Hanno complessivamente 57 mi­la dipendenti. A un costo medio di 35 mila euro l’anno a testa, val­gono circa due miliardi l’anno).
 
Nota Antonio Polito che questi costi devono avere come contro­parte il controllo sulla qualità del servizio. Osservazione molto sen­sata. Ma l’impressione suscitata dall’attuale discorso pubblico è che porre il tema della qualità dei servizi – soprattutto se commisu­rati al livello delle prestazioni fi­scali – ragionare cioè in termini contrattualistici, sia considerato ancora una forma di inciviltà poli­tica e sociale.