RADICALI ROMA

Andreotti e l'ombra della vendetta "Non sapevo di far cadere Prodi"

“Veramente non l’ho fatto per calcolo. Non avevo capito che senza il mio voto cadeva il governo…”. Alle cinque della sera il senatore a vita Giulio Andreotti, l’uomo che ha costituito sette governi – e ne ha appena fatto cadere uno – esce dal suo studio di Palazzo Giustiniani intabarrato in un cappotto col bavero rialzato, la sciarpa stretta al collo, il cappello ben calcato sulla testa e una piccola soddisfazione in tasca: adesso anche Prodi, che dieci mesi fa gli fece perdere per un soffio la presidenza del Senato, sa cosa significhi cadere per due voti, due soli voti. E uno era il suo.

Circondato dai cronisti, fa segno che non vuole parlare e si infila rapido nella sua macchina. Dalla quale però risponde al telefonino. Perché si è astenuto, senatore? “Ecco, io sarei stato anche disponibile a votare a favore. Ma sono rimasto male impressionato quando ho sentito che D’Alema ha parlato di non continuità con la politica estera di Berlusconi. Questo dover sempre ridurre tutto a un pro o contro Berlusconi mi sembra davvero assurdo. Così ho deciso di astenermi, per chiamarmi fuori”. Lei magari non immaginava che sarebbe finita così, ma adesso che succede? “Si vedrà quello che farà il presidente Napolitano. Non sarà una rivoluzione, comunque…”.

Certo, c’è qualcosa di paradossale nel fatto che Andreotti, l’uomo che trent’anni fa ottenne i voti dei comunisti inventandosi la formula della “non sfiducia”, adesso alzi il sopracciglio perché un ex comunista ha parlato di “non continuità”. Ma in fondo, a voler essere pignoli, lui ieri ha restituito a D’Alema esattamente quello che nel 1978 Berlinguer diede a lui: un’astensione. La stessa astensione che concedeva puntualmente, nella scorsa legislatura, al governo Berlusconi.

<!–inserto–>Un voto all’apparenza neutrale, né di qua né di là, che lascia agli altri di risolvere la partita. Ma in realtà è un voto che nelle mani esperte e astute del Divo Giulio può avere effetti pesantissimi. Come s’è visto ieri. E come si vide, sia pure con minor clamore, giusto un anno fa, quando la commissione Mitrokhin arrivò alla sua ultima seduta e doveva approvare la relazione faticosissimamente preparata dal presidente Guzzanti. Allora – era il 15 marzo 2006 – il centro-sinistra disertò la seduta, e il centro-destra contava proprio su Andreotti per raggiungere ventunesimo voto che avrebbe garantito il numero legale: ma quella mattina, lui che non si era mai perso una seduta non partecipò alla votazione – ovvero: si astenne – affondando per sempre la relazione finale.

I maligni – e in politica, si sa, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca – sono però convinti che la vera partita non sia tra il cinque volte ministro degli Esteri e l’attuale inquilino della Farnesina, ma tra due ex democristiani: Andreotti, per l’appunto, e Romano Prodi. Due personalità assai diverse, che hanno coabitato nel Palazzo solo dal 25 novembre 1978 – quando Andreotti, al suo quarto governo, nominò il professore ministro dell’Industria al posto di Carlo Donat Cattin – fino al 20 marzo dell’anno dopo. Meno di quattro mesi. Durante e dopo i quali, al di là della cordialità di facciata, tra i due non c’è mai stata grande simpatia.

Quando Prodi fu messo in campo dall’Ulivo, dodici anni fa, il senatore a vita fu più freddo che tiepido: “Ha una lunga esperienza, è stato presidente dell’Iri, però un carro politico finora non l’ha mai guidato. Bisogna avere più tempo per verificare le doti di ciascuno, ed è meglio farlo a consuntivo più che a preventivo”. Due anni dopo, quando Andreotti attraversava il suo cerchio di fuoco nell’aula bunker di Palermo, Prodi – diventato premier – fu un po’ meno gelido: “Questa vicenda mi toglie il sonno” dichiarò, suscitando le ire dei suoi alleati colpevolisti. Aggiunse qualche grado di calore quando l’ex presidente del Consiglio fu assolto dall’accusa di associazione mafiosa: “Mi sembra una buona notizia”.

Naturalmente Andreotti sorrise e ringraziò, ma qualche mese dopo – sempre sorridendo – si tolse il sassolino dalla scarpa. E, intervistato da Anna La Rosa per “Telecamere”, dichiarò con soave perfidia: “Romano Prodi ha un potere che nessun altro ha: quello di evocare i morti con il pendolino. Mi piacerebbe averlo, per evocare Sturzo e farmi dare una quaterna…”. Giusto per ricordare che l’altro era lo stesso che ha sempre detto di aver saputo il nome Gradoli, ovvero l’indirizzo della prigione brigatista di Aldo Moro, durante una seduta spiritica fatta così, per scherzo.

Era il tempo in cui Andreotti si asteneva sul governo Berlusconi. In un Parlamento diviso in due, tra le lucine verdi della maggioranza e quelle rosse dell’opposizione, la sua era spesso l’unica che restava bianca, segnalando sul tabellone elettronico una solitaria astensione. “Alcune leggi le voto, altre no – spiegava lui – è il vantaggio di non essere intruppato”. Berlusconi, che non aveva problemi di numeri, apprezzò. E quando Prodi, dopo la vittoria, rifiutò di offrire al centro-destra la seconda carica della Repubblica, il Cavaliere scelse proprio il Divo Giulio come suo candidato. Fu una battaglia all’ultimo voto, un braccio di ferro di due giorni durante i quali sembrò davvero possibile che il colpo di scena riuscisse. Ma alla fine, per un soffio, il sogno di Andreotti svanì.
<!– do nothing –>Gli è rimasto il suo posto di senatore a vita. Un seggio preziosissimo, con la risicata maggioranza su cui contava Prodi (almeno fino a ieri). Uno scranno che adesso si avvia a entrare nella leggenda, al punto che il leghista Calderoli alla vigilia di Natale voleva prenderne il calco per consegnarlo alla storia: “All’inizio era tutto liscio, avevano rifatto la tappezzeria. Poi piano piano, sullo schienale si è formato il segno della gobba…”.