RADICALI ROMA

“Brotherhood – Fratellanza” di Nicolò Donato: quando la forza ama la forza!

“L’omosessualità è la forza che ama la forza. Ogni altra forma di omosessualità è ignobile – un errore dei sensi – un vizio di costituzione”. Così annotava nel suo taccuino, nel 1936, un grande scrittore francese, Jean Cocteau.
L’affermazione, che condanna l’omosessualità maschile quando sia macchiata dalla femminilità o dall’effeminatezza, è evidentemente discutibile. Se la cito, è perché l’ideale “virile” dell’amore tra uomini, che ha attraversato secoli di storia della letteratura e dell’arte – a partire forse dai poemi di Omero – riecheggia alla lontana in un film uscito da poco sugli schermi italiani, “Brotherhood” (Fratellanza), vincitore del primo premio al festival di Roma dell’altr’anno, diretto dal danese (di origini italiane) Nicolo Donato.
Nel film si racconta una storia d’amore tra due uomini entrambi militanti di una setta neo-nazista danese.
L’impegno principale di tale setta è organizzare pestaggi di immigrati, ma anche, e soprattutto, di giovani omosessuali, dopo averli adescati.
E nel gruppo – al cui ingresso tutti i membri si sono impegnati con un giuramento solenne anche a rispettare le cosiddette “leggi della natura” – una relazione omosessuale tra due adepti è proibita.
Tutto il film è costruito intorno a una morale, che può essere riassunta nel proverbio: “Chi la fa, l’aspetti”. I due amanti, una volta scoperti, subiranno lo stesso trattamento che riservavano alle loro vittime (per la precisione: uno dei due dovrà essere il carnefice dell’altro).
Lo spettatore potrebbe chiedersi: i protagonisti come giustificano a sé stessi un comportamento (l’omosessualità, appunto) che condannano negli altri?
E’ un problema che il film non affronta davvero. Non arriva a leggere nella coscienza dei due amanti, con sottigliezza e con profondità. Che tuttavia sussista in loro un conflitto, è provato dal fatto che prima di giungere ad amarsi attraversino una fase (piuttosto breve, in effetti) di ostilità; e che manifestino un certo imbarazzo a parlare della loro relazione anche tra loro.
Tuttavia, alla fine, trascorrono una notte d’amore senza tanti tormenti.
Forse non si ritengono omosessuali. O meglio ancora, magari senza riuscire a dirselo con chiarezza, la pensano come Cocteau: la loro è un’omosessualità virile, e dunque sana; mentre quella delle loro vittime è femminile e dunque malata.
Ho avanzato qualche riserva sul film, sul disegno dei due personaggi principali, un po’ generico e inarticolato.
Ma attenzione, “Brotherhood” non è un brutto film. I rituali di incontro tra i militanti della setta neonazista – nei quali la rigidità militaresca si innesta o sfuma in un clima di cupa sbornia – ecco, questi momenti sono descritti con efficacia.
E poi c’è almeno un personaggio secondario centrato davvero con precisione. E’ il delatore: quello che spia i due commilitoni in camera da letto, e corre a riferire al leader quello che ha visto.
Si sa che a volte l’ortodossia più zelante e intransigente nasconde moventi poco confessabili. In questo caso il film fa capire con chiarezza che il vero movente del delatore è l’invidia. Uno dei due amanti aveva infatti appena ricevuto una promozione, che egli riteneva spettasse a lui stesso.
Ma alla fine – come il novizio di un convento, ancora idealista – consapevole di aver agito per ragioni impure, è macerato dal senso di colpa, e assiste piangente in ospedale il camerata che ha subito il pestaggio punitivo. Non per questo, probabilmente, si convertirà e ripudierà il nazismo. Il suo sembra un travaglio interiore di corto respiro. Ma – da un punto di vista artistico – è un travaglio leggibile e vero, che rende vero anche il personaggio che lo soffre.

Versione audio:
http://www.radioradicale.it/scheda/307459