RADICALI ROMA

CAMILLO RUINI, IL CARDINALE DEL VENTENNIO. L'ASCESA, LA GESTIONE DEL POTERE, LA REPRESSIONE DEL DISSENSO

Parlare di fine del “ventennio” ruiniano è forse esagerato, considerato il fatto che il card. Camillo Ruini – dopo ben 21 anni di ininterrotto dominio sulla Chiesa italiana (5 anni da segretario della Cei, tre quinquenni da presidente, più un anno di proroga) – pur lasciando la guida della Cei resta comunque vicario del papa per la diocesi di Roma e quindi autorevolissimo speaker del pontefice presso l’episcopato. Ciononostante, e senza trascurare che a capo dei vescovi italiani c’è ora mons. Angelo Bagnasco, persona vicinissima a Ruini (oltre che al Segretario di Stato card. Tarcisio Bertone), il cambio della guardia ai vertici della Conferenza episcopale rappresenta comunque un fatto storico, il segno di una stagione ecclesiale ormai al tramonto, seppure nell’incertezza pressoché totale sulle linee pastorali e teologiche che caratterizzeranno la nuova fase che necessariamente dovrà – prima o poi – aprirsi. Inoltre, il card. Camillo Ruini, insieme ai due pontefici che ne hanno segnato l’ascesa e l’affermazione, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, è certamente tra le figure che più hanno contribuito a segnare gli ultimi venti anni della vita ecclesiale del Paese. La “cura” prescritta da Ruini alla Chiesa italiana ha allontanato dalle parrocchie e dalle diocesi gli spiriti più attivi ed intellettualmente vivaci; creato malumori e tensione tra vescovi, preti e laici; seminato delusione nel mondo ecclesiale ed in quello laico per una leadership che ha assunto un carattere sempre più autoritario e personalistico; suscitato timore per l’accentramento imposto dal cardinale su ogni aspetto della vita ecclesiale, dell’associazionismo laicale, della comunicazione. Una strategia che non è nemmeno riuscita a frenare l’emorragia dei fedeli dalle parrocchie, ma che sotto l’aspetto della gestione del potere e del rapporto con la politica si è rivelata vincente. Per queste ragioni, nelle pagine che seguono tenteremo di ripercorrere sinteticamente, passo dopo passo, episodio dopo episodio, le tappe dell’ascesa di Ruini ai vertici della Chiesa: oltre che un’operazione di memoria storica in un tempo di galoppante alzheimer politico ed ecclesiale, ci sembra infatti che tale ricostruzione possa costituire un contributo di riflessione per la Chiesa che verrà. Se non altro, per usare un celebre verso di Montale, affinché sia chiaro “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.                  

Loreto 1985: la scalata di Ruini, la rivincita di Cl

L’astro di Ruini inizia a sorgere nel 1985, quando Ruini ha 54 anni. Da 2 anni, è vescovo ausiliare di Reggio Emilia. In quella diocesi, dal 1958 al 1966 aveva ricoperto la carica di Assistente Diocesano dei Laureati Cattolici e dal 1966 al 1970 era stato Delegato Vescovile per l’Azione Cattolica. Pur avendo insegnato tra gli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80 Teologia Dommatica presso 2 Studi teologici emiliani, Ruini non è un teologo e sino ad allora la sua azione pastorale era stata piuttosto grigia. Ha però l’intuizione che sotto Wojtyla qualcosa nella Chiesa italiana stava cambiando e si propone come punto di riferimento di un processo che avrebbe portato ad un radicale sovvertimento di prospettive ecclesiali e di classe dirigente. Capisce inoltre che uno snodo fondamentale di questo processo poteva essere il II Convegno che la Chiesa italiana si apprestava a celebrare a Loreto sul tema “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Papa Wojtyla, infatti, intuendone le doti, gli affida la vicepresidenza del Comitato preparatorio dell’Assemblea. In questo ruolo, Ruini riesce in breve tempo a divenire il leader del think tank di esperti decisi a contrastare la linea montiniana che a Loreto sembrava destinata ad essere nettamente maggioritaria: perché sostenuta da un gran numero di delegati; perché aveva nel presidente del Comitato preparatorio, il card. Carlo Maria Martini (gesuita, arcivescovo di Milano), e nell’allora presidente della Conferenza episcopale, il card. Anastasio Ballestrero (religioso carmelitano e arcivescovo di Torino), un solido supporto teologico e pastorale; ma anche perché poteva contare su uno strumento di presenza attiva e capillare nelle realtà territoriali e nella formazione del laicato quale l’Azione Cattolica guidata in quel periodo da Alberto Monticone, fortemente segnata dalla “scelta religiosa” che Vittorio Bachelet aveva voluto (su esplicito mandato di papa Paolo VI) per l’Azione Cattolica del post Concilio. Era, quella montiniana, una Chiesa che tentava di impegnarsi in una prospettiva realmente ecumenica, che cercava di vivere la laicità come ascolto dei segni dei tempi e la secolarizzazione come una sfida piuttosto che come una minaccia, che lasciava ai laici una certa autonomia nell’azione sociale e politica. Quando l’11 aprile Giovanni Paolo II arriva nel Palazzetto dello sport di Loreto per tenere il suo discorso ai delegati, si capsce subito che quella del pontefice non sarebbe stata (né intendeva essere) una presenza discreta. Già il fatto che Giovanni Paolo II decidesse di partecipare ai lavori era una novità: nel 1976, durante il I Convegno ecclesiale di Roma (su “Evangelizzazione e promozione umana”), Paolo VI si era limitato a tenere una serie di catechesi nelle settimane precedenti l’assemblea (oltre all’omelia pronunciata in occasione della Messa celebrata per i convegnisti in piazza San Pietro). Wojtyla no. Lui aveva deciso di condizionare fortemente, con la sua presenza ed il suo discorso, l’esito dei lavori, ridimensionando quella parte della Chiesa ancora legata agli orientamenti conciliari. Altra novità: ad accogliere il papa a Loreto, schierati nelle prime file della platea fatta appositamente sgomberare da ogni presenza laica o di semplici presbiteri e religiosi, file e file di berrette rosse e viola. Segno di una chiesa che si vuole nuovamente e pienamente in mano alla gerarchia. Del resto, contrariamente al Convegno di Roma, nessun laico era stato chiamato a far parte dell’ufficio di presidenza dei lavori.  

Un discorso “profetico”

Rileggendo il discorso pronunciato dal papa – tanto più con il senno di poi – si comprende quale sia stato il contributo di Ruini alla sua stesura. A tratti, sembra addirittura che quello pronunciato nell’aprile ‘85 sia una sorta di manifesto programmatico del “ventennio” di Ruini alla guida della Chiesa italiana.A Loreto, il papa invita a dare testimonianza di unità, a vivere in piena sintonia con la Chiesa, ad operare affinché la fede cristiana “in una società pluralistica e parzialmente scristianizzata” “recuperi un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro”. Giovanni Paolo II chiarisce poi che va bene richiamarsi al Concilio, a patto che “il Concilio non si interpreti secondo particolari visioni o scelte personali”. Critica inoltre il “processo di secolarizzazione, che spesso si esprime in una vera scristianizzazione della mentalità e del costume per il diffondersi del materialismo pratico, cui si aggiunge il peso culturale e politico di ideologie atee”. Avverte i presenti che la “coscienza di verità”, “la consapevolezza cioè di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario dell’intera comunità ecclesiale”, necessario per la nuova “implantatio evangelica” che il papa intende attuare. “Di qui l’urgenza di una sistematica, approfondita e capillare catechesi degli adulti”, che renda i cristiani capaci di testimoniare la propria identità. La formazione del laicato, non più demandata all’Azione Cattolica, che non aveva dato prova di sapersi contrapporre adeguatamente ai fenomeni di secolarizzazione, va promossa soprattutto attraverso i movimenti, che a Loreto ricevono la loro definitiva consacrazione. Il papa esalta infatti la “carica di promesse, la grande varietà
e vivacità di aggregazioni e movimenti, soprattutto laicali, che caratterizza l’attuale periodo post-conciliare”, verso cui invita a deporre “ogni spirito di antagonismo e di contesa”. Definisce anzi i movimenti “un canale privilegiato per la formazione e la promozione di un laicato attivo e consapevole del proprio ruolo nella Chiesa e nel mondo, secondo il genuino insegnamento del Concilio”. Poi il discorso piega sugli aspetti politici, sottolineando l’importanza di una “cultura della presenza” (proprio quella che Cl andava contrapponendo alla “cultura della mediazione” portata avanti dall’Ac di Monticone), cioè l’idea di una Chiesa “forza sociale”, chiamata a svolgere una funzione pubblica in Italia. “Nell’adempiere a quest’opera – dice il papa – la Chiesa non invade pertanto competenze altrui, ma agisce in virtù di ciò che originariamente le appartiene”. Occorre cioè superare “quella frattura tra Vangelo e cultura che è, anche per l’Italia, il dramma della nostra epoca; occorre por mano a un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita”. Il papa afferma poi che nel movimento dei laici cattolici impegnati in politica, pur tra inevitabili “tensioni e divisioni”, “è sempre prevalsa la tendenza verso un impegno che, nella libera maturazione delle coscienze cristiane non poteva non manifestarsi unitario soprattutto nei momenti in cui lo ha richiesto il bene supremo della nazione”. Insomma, riaffermazione del “dogma” dell’unità dei cattolici nella Dc che – spiega il pontefice – nella realtà odierna “non va dimenticato”; anzi, “va tenuto presente nei momenti delle responsabili e coerenti scelte che il cittadino cristiano è chiamato a compiere”. 

Il deserto della “pace ecclesiale”

Dopo Loreto la carriera di Ruini è rapidissima. Già l’anno successivo, il 26 giugno, Giovanni Paolo II lo nomina segretario della Conferenza Episcopale. È il vice del card. Ugo Poletti (nominato l’anno prima al posto di Ballestrero), ma a Poletti Ruini ruba rapidamente la scena, esautorando il presidente di ogni potere reale e imponendosi ben presto come l’uomo forte della Curia vaticana dentro la Cei. Ruini inizia così a guidare il radicale processo di trasformazione wojtyliana della Chiesa italiana. Per la linea conciliare, all’interno della gerarchia come dentro l’associazionismo cattolico, è l’inizio della fine. Sulla scia delle parole del papa, Ruini vuole anzitutto promuovere una forte politica di sostegno ai movimenti. Specie Comunione e Liberazione (già da diversi anni aspramente contrapposta all’Azione Cattolica), utilizzata da Ruini come ariete per contrastare le spinte progressiste e conciliari della Chiesa montiniana, specie dentro l’Ac. Pressata dall’esterno, attaccata all’interno, la classe dirigente dell’Azione Cattolica alla fine capitola: sono Dino Boffo (allora giovane dirigente Ac) e Mario Agnes (ex presidente di Ac divenuto nel 1984 direttore dell'”Osservatore Romano”) a lavorare, dentro e fuori l’associazione, per conto del cardinale, delegittimando e – progressivamente – esautorando i dirigenti legati a Monticone ed alla “scelta religiosa” (difesa, come slogan, da tutta l’associazione, ma nei fatti svuotata progressivamente della carica profetica che aveva voluto conferirgli Bachelet) e guidando la battaglia ‘restauratrice’ all’interno dell’Ac. Sulla fine degli anni ‘80 il fermento ecclesiale all’interno dell’associazione si spegne rapidamente, anche perché Ruini provvede personalmente (laddove lo scontro tra le diverse anime dell’Ac non consentiva ai “suoi” uomini di guadagnare il solido controllo dell’associazione) a nominare (o far nominare) assistenti e responsabili che si facessero garanti e custodi della linea imposta a Loreto. Anche l’altra grande realtà del laicato cattolico organizzato, le Acli, si trova in acque solo di poco meno agitate: uscite dalle grazie dei vescovi con la rottura della “scelta socialista” fatta nel 1970, le Acli si riavvicinano progressivamente all’orbita della Cei, riconciliandosi ufficialmente nel 1991. La lunga marcia verso il pieno riconoscimento ecclesiale, pagato al prezzo della marginalizzazione della vecchia classe dirigente e della perdita definitiva dell’autonomia duramente conquistata negli anni precedenti (e sostanzialmente difesa negli anni della presidenza di Domenico Rosati, Giovanni Bianchi e Franco Passuello), viene completata sotto la presidenza di Luigi Bobba (1998-2006), non a caso oggi “testa di ponte” del cardinal Ruini (attraverso il progetto dei Teodem), dentro lo schieramento di centrosinistra e nel nuovo Partito Democratico. Ma già nel 1991 la fase più difficile della normalizzazione della Chiesa italiana può dirsi sostanzialmente realizzata. Il primo luglio di quell’anno Ruini diventa infatti Vicario Generale del papa per la diocesi di Roma. Poche settimane prima, il 7 marzo, era subentrato anche de iure, oltre che de facto, al card. Poletti come presidente della Cei. In qualità di “vescovo” vicario di Roma, inizia un capillare lavoro di normalizzazione delle parrocchie romane, attraverso la rimozione di parroci eccessivamente disponibili ad aprirsi alle esigenze del territorio o a coinvolgere i laici nella gestione della pastorale parrocchiale e la loro sostituzione con preti ritenuti più “affidabili”.Forte delle due prestigiosissime cariche conferitegli da Giovanni Paolo II, Ruini passa poi ad affrontare una questione che gli stava particolarmente a cuore, quella dell’informazione cattolica, che il cardinale riteneva contrassegnata ancora da una eccessiva pluralità di punti di vista e che riteneva dovesse essere, oltre che uniformata sotto l’aspetto politico ed ecclesiale, anche ricondotta progressivamente sotto il rigido controllo della presidenza della Cei.  

Comunicare il verbo

Primo tassello di questa impresa (dopo la nascita, nel 1989, del Sir, l’agenzia di stampa della Cei), l’avvento alla direzione di Avvenire di Dino Boffo. Già vicedirettore “plenipotenziario” del quotidiano, quando all’inizio del 1994 assume formalmente la guida di Avvenire, non trova ostacoli nel trasformare la voce dei vescovi nella voce del cardinal Ruini. Si avvicinava frattanto il II Convegno della Chiesa italiana di Palermo (sul tema: “Il Vangelo della Carità per una nuova società in Italia”), fissato per il novembre 1995. Nei mesi che precedono l’assise, Ruini tenta di convincere i religiosi paolini (assicurando loro che la sua proposta corrispondeva ad un preciso desiderio del papa) – primo fra tutti l’allora direttore di Jesus, don Stefano Andreatta – ad accettare un piano di riorganizzazione della stampa cattolica italiana sotto l’egida della Cei. Al progetto i paolini avrebbero dovuto portare “in dote” le loro prestigiose riviste, in primis Famiglia Cristiana, Jesus, Vita pastorale. I paolini, dopo qualche incertezza, declinano l’invito. Furente, Ruini reagisce chiedendo, ed ottenendo, l’intervento del papa: l’11 febbraio 1997, Giovanni Paolo II firma un decreto pontificio di commissariamento della Congregazione paolina. I paolini resistono, ma devono sacrificare uno dei più tenaci oppositori alla linea del cardinale: il direttore di Famiglia Cristiana don Leonardo Zega, costretto a rassegnare le dimissioni nell’aprile del 1998. Se Ruini non riesce ad abbattere (ma a piegare sì) l’autonomia dei paolini, il progetto dei media cattolici sotto egida Cei prosegue con la nascita, nel 1998, di Sat 2000, tv satellitare con una quarantina di emittenti locali che ritrasmettono i suoi programmi (dal giugno 2005 il canale è anche sul digitale terrestre). A dirigerla è sempre Dino Boffo; proprietaria di Sat 2000 è invece la fondazione no-profit Comunicazione e Cultura, voluta nel 1997 dalla Conferenza episcopale italiana per le sue attività nel settore delle telecomunicazioni. La fondazione, oltre che di Sat 2000, è proprietaria di Blusat, che opera nel settore radiofonico: Blus
at produce e distribuisce i suoi programmi ad un circuito che si chiama Inblu e che conta più di 200 emittenti sparse in tutta Italia. Queste radio alternano ai propri programmi quelli acquistati dalla Blusat, la cui ossatura è rappresentata dai radiogiornali prodotti da News Press (che da 4 anni è una Spa). A dirigere News Press è ancora Dino Boffo, divenuto negli anni l’uomo forte di Ruini in tutto il settore delle telecomunicazioni. 

Palermo 1995: nasce il partito a presidenza Cei

Al Convegno di Palermo il papa, sull’onda dello scandalo di Tangentopoli e dell’avvento del sistema maggioritario, sancisce ufficialmente la fine dell’unità dei cattolici in politica. Per Ruini questo non significa in alcun modo il venir meno degli obiettivi di fondo fissati a Loreto. Nessuna diaspora cattolica, quindi. Lungi dal poter essere considerato “adulto”, un credente aveva infatti bisogno – secondo il cardinale – che qualcuno gli indicasse la via per realizzare i valori (il rispetto della persona e della vita umana, la difesa della famiglia, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace) insegnati dal Magistero. Ritenendo insufficiente a questo scopo sia il discernimento individuale e comunitario, sia il confronto ed il dialogo tra le culture, Ruini attribuisce ai vescovi, e in particolare alla presidenza della Cei (cioè a se stesso), il compito di indicare ai laici forze o progetti politici coerenti con la fede cristiana. Dopo aver sollecitato, finché era stato possibile – cioè fino al 1993 – il mantenimento dell’unità politica dei cattolici nella Dc, il presidente della Cei decide perciò di “bypassare” qualsiasi mediazione politica, iniziando a contrattare direttamente con i partiti (specie di destra) le questioni che stavano maggiormente “a cuore” alla “sua” Chiesa: “difesa” della vita, bioetica, finanziamento pubblico delle scuole cattoliche, parità scolastica, famiglia, cultura cattolica. Ottenendo, peraltro, indubbi risultati, come la centralizzazione, sotto il suo controllo, della gestione dei fondi dell’8 per mille (circa 1 miliardo di euro l’anno), massicci finanziamenti per il Giubileo del 2000 e il mega raduno dei giovani cattolici a Tor Vergata, la legge sulla fecondazione assistita, quella sull’esenzione dell’Ici per i beni immobili ecclesiastici con attività di natura commerciale, l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione, la legge che finanzia gli oratori, ecc.A pagare dazio, ancora una volta, l’autonomia dei laici cattolici nella Chiesa e la loro libertà di esprimersi ed agire fuori dalla tutela della gerarchia, tanto sul versante politico che su quello ecclesiale, perché la linea della “fermezza” già imposta da Ruini nel governo della Chiesa si rende necessaria anche per annullare la resistenza di quei settori ecclesiali presso i quali – come lo stesso presidente della Cei scrive in un articolo pubblicato su “Vita e Pensiero” nel 2005 (v. Adista n. 7/05) – continua ad essere presente “in misura non trascurabile” un progetto “di ispirazione marxiana” alternativo a quello della Chiesa wojtyliana. La permanenza di tendenze “eterodosse” rispetto al volere dei vertici ecclesiastici viene combattuta con il drastico azzeramento del dibattito interno alla Chiesa, con la selezione capillare della nuova classe episcopale e la progressiva emarginazione di tutti quei vescovi e dirigenti diocesani che manifestavano ancora recrudescenze del “virus” conciliare. Per contrastare la “deriva” secolare, Ruini, proprio a Palermo, lancia inoltre l’idea (di cui già aveva iniziato a parlare l’anno prima) del “progetto culturale”: una capillare opera di rievangelizzazione che avrebbe dovuto coinvolgere tutte le realtà ecclesiali del Paese (e che è stata finora finanziata con milioni e milioni di euro).Il sigillo sul suo trionfo Ruini riesce a metterlo nel 2004 quando, attraverso il segretario della Cei mons. Giuseppe Betori, induce la presidente dell’Ac Paola Bignardi a parlare sul palco del Meeting di Rimini per sancire l’avvenuta “pace” con Comunione e Liberazione. Un mese dopo, i militanti dell’Ac devono ingoiare un altro amaro boccone: l’invito di Gianfranco Fini alla kermesse voluta dalla Cei (e organizzata dall’Azione Cattolica) a Loreto.  

Verona 2006: missione compiuta

L’ultima frontiera dell’azione politica di Ruini è la costruzione di un “partito di Dio”, trasversale agli schieramenti, in prima linea nel promuovere l’orizzonte etico cattolico e veicolare in Parlamento – ma anche all’interno della società civile – la volontà del papa e della gerarchia. È questo il senso di operazioni come Retinopera, Scienza e Vita, nonché della nascita dei Teodem. Se in politica interna Ruini riesce a costruire una forte lobby a difesa degli interessi “materiali” della Chiesa, anche in “politica estera” il cardinale dà una decisa sterzata “interventista” all’atteggiamento “pacifista” di Wojtyla dopo l’attentato terroristico alle Twin Towers. In particolare, dopo la morte dei 19 militari italiani a Nassiryia, nel novembre del 2003: “Non fuggiremo davanti a loro [i terroristi], anzi, li fronteggeremo con tutto il coraggio”. “Affidiamo [a Dio] (…) tutti gli italiani, militari e civili, che sono in Iraq e in altri Paesi per compiere una grande e nobile missione, e, con loro, questa nostra amata Patria, la pace nel mondo e il rispetto per la vita umana”, dice Ruini nell’omelia pronunciata al funerale dei carabinieri uccisi a Nassiriya, il 18 novembre di quell’anno. Arriviamo così ai giorni nostri. Nell’ottobre del 2006, a Verona, si svolge il IV Convegno della Chiesa italiana (“Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”): liberatosi facilmente della timida opposizione che faceva capo al card. Dionigi Tettamanzi (strutturando i lavori in modo da concedere ai delegati pochissimo spazio per dibattere e impedendo loro di esprimersi attraverso il voto), Ruini lancia in quell’occasione una sfida che resta tuttora aperta: quella che il cardinale ha definito in più occasioni la “questione antropologica”, ossia la battaglia per la presenza cristiana (con relativa menzione delle annesse “radici”) nella cultura italiana ed europea, la lotta per i valori occidentali e per l’affermazione dell’identità cristiana, la contrapposizione all’Islam ed ai processi di integrazione religiosa, la crociata contro la deriva laicista del vecchio Continente e l’opposizione ad ogni provvedimento legislativo – ultimo esempio i Dico, che per la Chiesa incarnano il demonio della modernità e della secolarizzazione. Il cardinale, che pure su questo fronte si è ultimamente speso moltissimo, ha dovuto arrendersi all’età. Bisognerà capire se, uscito di scena il generale, cambierà la strategia dei suoi colonnelli. I segnali, per ora, sembrerebbero smentire questa ipotesi. Ma la realtà di una gerarchia che fa sempre più fatica a nascondere le proprie lacerazioni interne e le proprie contraddizioni, che continua ad occupare le stanze del potere ma non riesce ad impedire che le sue chiese siano sempre più vuote, potrebbe sparigliare nuovamente le carte. (valerio gigante)