Provo sconcerto e dolore per la notizia contenuta nell’articolo apparso sul Corriere del 10 aprile, che riporta di Sofri che avrebbe chiesto a Cossiga di parlare insieme del caso Moro. Liberissimo di farlo e a me di annotare che così si arriva alla virtuale quadratura del cerchio. Mi da sconfinato dolore il fatto che il nome di Moro sia «sventolato» qua e là senza alcun rispetto per la terribile vicenda umana dell’uomo Moro, sia usato volta a volta come uno spauracchio e come termine di paragone per ogni fatto terroristico e per ogni sequestro. Si prescinde dalla vicenda umana e soprattutto «il caso Moro non riguardi i Moro». La mattina di Pasqua io ero alla marcia contro la pena di morte, in prima fila, al centro dello striscione in veste di dirigente radicale e di donna invisibile. Non mi hanno fatto col capo un breve cenno di saluto né Bobo Craxi che pure avevo salutato per prima, Adriano Sofri del quale pur apprezzo le lucide analisi politiche e che avrebbe potuto aver voglia di parlare anche con me del caso Moro, il sindaco di Roma che ha doverosamente salutato Mina Welby, che si trovava alla mia sinistra a meno di un metro di distanza e l’emerito senatore Francesco Cossiga. Il mancato saluto non sarebbe stato diretto a me, beninteso, ma a mio padre. Rimane il fatto che il nostro Paese non uscirà mai dal guado se non assumendosi la corresponsabilità collettiva di aver assistito alla morte di un innocente senza muovere un dito e se così non sarà la livella, cara a Totò, finirà, con annesso giudizio finale, per pareggiare i conti.