Politici di primo piano e firme autorevoli gli hanno dato dell”‘omicida”: Luca Volontà del’Udc ne ha invocato addirittura l’arresto immediato. Con il suo gesto, la sera (alle 23,40) del 20 dicembre scorso, quando ha staccato la spina del ventilatore che consentiva a Piergiorgio Welby di restare in vita e, contemporaneamente, ha sedato il 60enne scrittore che da oltre 40 anni soffriva di distrofia muscolare progressiva, il dottor Mario Riccio ha tracciato un solco a ridosso del quale si fronteggiano le coscienze delle persone. Per Riccio non ci sono soltanto critiche, accuse e insulti. In difesa del medico-anestesista si è levato un saldo e alto muro di solidarietà, dalle 1300 firme raccolte a Cremona . Fra loro, medici come Umberto Veronesi, politici come il sindaco di Cremona Giancarlo Corada, il predecessore Paolo Bodini (senatore della Sinistra indipendente), fino a Marco Pannella e altri.
Mario Riccio, 47 anni, napoletano, da 30 anni a Cremona, medico rianimatore e anestesista del locale Ospedale Maggiore, membro della Consulta di Bioetica onlus di Milano, sposato e padre di una bimba di 5 anni, appassionato subacqueo e velista dilettante, ha confidato di attendere non senza qualche timore la decisione del 26 gennaio da parte della commissione dell’Ordine dei Medici di Cremona, per cui rischia sanzioni fino alla radiazione dall’albo. E con al
trettanta preoccupazione attende lo sbocco degli accertamenti chiesti dalla procura di Roma che potrebbero condurre all’archiviazione, ma anche all’accusa di omicidio volontario, o di suicidio assistito, oppure di omicidio colposo.
Dottor Riccio, è più preoccupato per la decisione della commissione medica o per gli esiti giudiziari?
«Mi preoccupa di più ciò che deciderà la commissione dell’Ordine dei Medici: confesso che l’eventuale interruzione della mia attività professionale è un’ipotesi che mi spaventa molto. Ma ribadisco che ciò che mi preme veramente è il pieno riconoscimento dell’autonomia del paziente e del suo diritto a curarsi, così come quello del rifiuto e dell’interruzione della terapia. È da tempo che mi occupo di consenso informato e di volontà del paziente. Poi, attraverso il rapporto con la Consulta di Bioetica e l’associazione Luca Coscioni mi sono avvicinato al caso Welby».
Coscioni però, non era collegato a un ventilatore che l’aiutava a respirare.
«No, perché Coscioni aveva dato disposizione di non farlo. Come del resto aveva fatto quell’altro illustre paziente che tutti conoscono: Papa Wojtyla. Giovanni Paolo II aveva una patologia molto simile a quella di Welby: ebbe una crisi respiratoria e fu sottoposto a trachetomia. Dopo qualche giorno, gli suggerirono di utilizzare il ventilatore, ma lui rifiutò. Così, mentre Welby ha accettato per 10 anni di soffrire e di affidarsi al respiratore meccanico, il Papa non l’ha voluto neanche un minuto. Il Papa è stato meno religioso di Welby…».
L’autopsia di Welby è stata eseguita, la magistratura è già a conoscenza della quantità e della qualità dei farmaci che gli ha iniettato.
«Vorrei chiarire che non c’è stato da parte mia un atto eutanasico: mi sono limitato a sedare il paziente. L’atto eutanasico, che sarebbe un omicidio volontario del consenziente, oppure un suicidio assistito, si pratica attraverso quello che i giudici chiamano “l’elemento psicologico del reato”. Cioè, se avessi somministrato a Welby un farmaco che andava a colpire il cuore o i polmoni, bloccando le facoltà respiratorie o l’attività cardiaca, ci sarebbe stato “l’elemento del reato” e io avrei praticato un’eutanasia. Invece, Welby si è sedato, si è addormentato. E non ha vissuto il momento dell’arresto respiratorio».
Aveva già fatto una cosa simile?
«Voglio chiarire che la pianificazione delle cure avviene tutti i giorni, in tutto il mondo, regolarmente. Ha presente quando si dice: lo ventiliamo per 8 giorni, verifichiamo i risultati e poi decidiamo se continuare o no? Certo, serve il parere del paziente se è “competent”, o dei suoi familiari se non lo è più; oppure seguendo le indicazioni del “testamento biologico in vita” del paziente, qualora ci sia».
Altri medici, però, si sono rifiutati di bloccare il ventilatore di Welby. Evidentemente, per alcuni, c’è differenza tra rifiuto della cura e interruzione della terapia.
«Forse, ma solo sul piano emotivo. Tra interruzione e non inizio della cura, in realtà, non esiste nessun problema di tipo etico e nemmeno giuridico. Rifiutare la terapia o interromperla è perfettamente uguale, nel senso che la problematica etica per la signora che si oppone a che le operino la gamba e se ne va in Sicilia a morire, e chi decide di interrompere la terapia è esattamente la stessa».
Il suo gesto ha segnato un solco tra le convinzioni della gente. Le pesa il ruolo di agitatore internazionale di coscienze?
«Sono solo un modesto medico ospedaliero. È stato Welby che ha voluto portare il suo caso all’attenzione mediatica. Io ho fatto solo il gesto finale, ho messo in pratica ciò che avviene tutti i giorni, in tutti gli ospedali del mondo, cioè l’interruzione della terapia».
Sul versante politico dopo le prime reazioni, si registra un calo di attenzione verso il problema dell’eutanasia: ci vorrà un nuovo caso Welby per riattualizzarlo?
«La politica ha perso un’occasione, come dimostra il rifiuto delle Camere all’invito di Giorgio Napolitano e Fausto Bertinotti ad aprire un discorso sull’eutanasia. Però vedo che il ministro Turco si propone di applicare la convenzione di Oviedo e dare spazio ai testamenti biologici in vita. Basterebbe un decreto-legge per consentire a chiunque di donare i propri organi, cosa che in Italia è concessa solo ai parenti dei deceduti (se non si oppongono). Non è un fatto culturalmente avanzato la mancanza di una legge che permetta di decidere in vita se donare gli organi o no».