Paolo Franchi mette il dito nella piaga, interrogandosi sul rapporto che c’è tra Partito democratico e socialdemocrazia. La costruzione di un Partito democratico, anziché socialdemocratico, non nasce dal fatto che la situazione italiana sia così avanzata da cogliere un obiettivo d’avvenire prima di tutti gli altri, ma dalia sua arretratezza politica che fa avvicinare l’Italia più ai paesi dell’Est che dell’Ovest dell’Europa. Lo si capisce dal fatto che tutto il dibattito sull’adesione o meno al socialismo europeo sembra fissare la costruzione del nuovo Partito democratico come se fosse una fase intermedia per arrivare anche in Italia a un nuovo e grande partito socialdemocratico.
Per rendersi conto di come l’Italia non assomigli alla grande democrazia americana, ma molto di più a qualche paese dell’Est europeo, basta una rapida occhiata alla geografia politica italiana: dall’esistenza di un partito popolare che in realtà è un’invenzione di un tycoon televisivo, al fatto che il più importante partito socialdemocratico nasca dalla maggioranza di un partito comunista; o che l’altro principale partito della destra democratica tragga origine da un partito fascista, o dall’esistenza di ben tre partiti semiconfessionali come la Margherita, l’Udc e l’Udeur, per non parlare dell’esistenza di ben due partiti comunisti.
È, quindi, del tutto sensato il tentativo di porre un rimedio a questa situazione perché dall’arretratezza – più che dalla frammentazione – dell’Italia politica non potrà essere venire un’Italia moderna. Questa è l’intuizione strategica di grande rilievo che hanno avuto Prodi e Parisi con l’Ulivo e che corrisponde alla necessità di superare un mondo politico assai distante dalle grandi democrazie europee. Perché la ricetta Prodi-Parisi però funzioni occorre che si realizzi con un vero e proprio scioglimento dei partiti, con un rimescolamento che dia vita a una formazione politica davvero nuova. Se, invece, si arriva di fatto a una pura e semplice federazione tra i due principali partiti, i Ds e la Margherita, allora non si crea una novità ma si ottiene invece una riproposizione, per quanto sotto forme aggiornate, del duopolio tra postcomunisti e postdemocristiani, quello che Ugo Intini ha chiamato un compromesso storico bonsai. Ed è ciò che sta accadendo.
Il cambiamento di qualità nel processo di costruzione del Partito democratico è avvenuto quando la Margherita, che ne doveva essere il prototipo, si è trasformata in un partito semiconfessionale con tanto di plateali e convinte adesioni del suo leader Francesco Rutelli alle cause della Chiesa (dalla procreazione assistita alla libertà della ricerca fino al finanziamento delle scuole private, paritarie o no che siano, età). Questo cambio del Dna della Margherita ha colpito nel cuore il progetto di Prodi e di Parisi. Di fronte a questa situazione tra i Ds hanno preso corpo antichi istinti conservatori che vedono nell’Ulivo lo sviluppo di un’antica politica di apertura ai cattolici democratici, portata avanti dal Pci. Che lo Sdi non potesse far parte di questa compagnia di viaggio, fu chiaro sin da quando emerse un patto di ferro tra Rutelli e il presidente della Cei cardinale Ruini.
Del resto l’Ulivo che nasce da un patto tra due partiti non è più l’Ulivo. Perde tutta la sua carica innovativa e da forza al ventre molle che esiste nei Ds e nella Margherita per sostenere qualsiasi tipo d’interessi di categoria o localistici, com’è accaduto proprio nella Finanziaria. Così le tante affermazioni coraggiose fatte da Fassino e da Rutelli sulla modernizzazione dell’Italia, sulle liberalizzazioni e sul contrasto di corporazioni e oligopoli, a parte il “pacchetto Bersani” che rischia di restare un episodio isolato, restano virtuali. Si afferma, invece, un grande patto neocorporativo che con il denaro pubblico non smette mai di concedere elargizioni e incentivazioni. Non s’investe con un impegno straordinario nella ricerca, costringendo tutti – a cominciare dal ministro Mussi – a una battaglia di retroguardia, ancora non completamente vinta, per evitare tagli. E un vero e proprio scandalo che sulla battaglia per la ricerca e la formazione, come su quella per l’abolizione dei privilegi sull’Ici o sull’8% alle chiese, il gruppo della Rosa nel Pugno sia stato lasciato solo e isolato. Ma che Partito democratico si vuole costruire se si lascia cadere la bandiera dell’innovazione e della laicità dello Stato?
Di fronte a questa situazione, sul fianco sinistro si sta organizzando una resistenza al Partito democratico, fatta sulla difesa della frontiera della socialdemocrazia ma portata avanti su un asse programmatico che si contrappone apertamente ai processi di revisione e di innovazione in corso nei partiti aderenti al Pse. Debole è invece la sollecitazione, come rileva il direttore del Riformista, che viene da parte dell’area liberalsocialista che avrebbe dovuto contare innanzi tutto nella Rosa nel Pugno, costruita dai radicali e dallo Sdi e oggi in evidente crisi, che dovrebbe portare avanti un confronto critico sulla costruzione di un Partito democratico come una pura e semplice bicicletta Ds-Margherita. Eppure è dal liberalsocialismo che dovrebbero venire idee, proposte e critiche per evitare che tutto cambi solo allo scopo gattopardesco di far rimanere tutto esattamente come prima, senza un vero Partito democratico e senza una socialdemocrazia davvero innovatrice. Per fortuna non bisogna disperarci perché, come ricorda Paolo Franchi, i socialisti hanno sette vite come i gatti.