RADICALI ROMA

Dai Pacs ai Dico ai Cus ultima targa per non sposati

  In principio erano i Pacs, che hanno generato i Dico, da cui sono venuti i Cus. Questi ulti­mi sono i “Contratti di unione so­lidale”, il cui testo è stato presen­tato ieri dal presidente della com­missione giustizia del Senato Ce­sare Salvi al comitato ristretto della commissione, e che di fatto sostituiscono nell’iter parlamen­tare il disegno di legge sui “Diritti e doveri dei conviventi” elabora­to in avvio di legislatura da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini.
 
Non è attraente come si­gla, la parola “Cus”, ha un che di sovietico, se non peggio: ma questo sareb­be il meno, perché alle sigle ci si abitua, come pure alla loro scomparsa. Il punto vero è che il dibattito che si svilupperà sui Cus riprende esattamente gli stessi termini della discussione che si era sviluppata sui Di­co, senza che nel frattempo nessuno dei problemi che i Pacs all’italiana intendevano affrontare sia stato affrontato.
 
E così entrerà nel lessico sclerotizzato della politica un’altra sigla a cui è poco pre­vedibile che corrisponderà un contenuto effettivo. Non si ca­pisce infatti, o almeno non lo sa il cittadino comune, perché e dove si siano inabissati i Dico, ossia non si conosce con chia­rezza la ragion politica e la ra­gion pratica che li hanno affondati. Né si intuisce per quale motivo i Cus dovrebbero avere sorte migliore nelle ac­que parlamentari.
 
Si sa soltanto che come per molti fenomeni della politica di questi mesi, dal “tesoretto” allo “scalone”, l’apparenza è già pronta a sostituire la so­stanza: la sigla prevarrà sul di­spositivo di legge, l’acronimo si trasformerà in un totem linguistico, il suono stesso della parola”Cus” in un simbolo che verrà brandito dalle schiere dei sostenitori e degli oppositori, in una specie di sterile steno­grafia del confronto pubblico.
 
C’è una capacità straordina­ria, da parte della politica, nel produrre invenzioni che si sostituiscono ai fenomeni reali. Il disegno di legge Bindi-Pollastrini era una complessa tessi­tura di mediazioni politiche tese a riconoscere diritti individuali, sebbene derivanti dal­la convivenza, senza istituire legami di tipo familiare. Che poi si concretasse nel grotte­sco di unioni sancite dall’invio di una raccomandata con ricevuta di ritorno era la conse­guenza di un arzigogolo fatto legge. Ciò nonostante, i Dico, anzi il fantasma dei Dico, ha avuto il privilegio di un’oppo­sizione durissima da parte del­la gerarchia cattolica, che li identificava come un matri­monio minore, e quindi una ferita all’istituzione “naturale” della famiglia.
 
Ma ben prima di scomparire nelle tortuosità dei rapporti fra governo e parlamento, l’intelaiatura della legge era stata dimenticata nel dibattito pub­blico. I Dico erano diventati una parola simulacro, o vice­versa una parola esorcismo. Sostenere i Dico, come oppor-si ai Dico, costituiva alla fine un esercizio in cui di solito l’enun­ciazione suppliva integralmente all’argomentazione.
 
Nel frattempo, non uno dei problemi, talvolta penosi, che i fautori dei Dico volevano risol­vere è stato affrontato. E non uno dei problemi che i detrat­tori dei Dico volevano affron­tare invece con l’estensione dei diritti previsti dal codice ci­vile è stato risolto.
 
Sicché si ha la sensazione di un gioco di prestigio: con una mossa a sorpresa spariscono i Dico; con un’abile trovata appaiono i Cus; e all’applauso dei laici integrali, o dei “laicisti”, come li chiama la Cei, si unisce già la scomunica dei cattolici intransigenti, che non accetta­no “il matrimonio di serie B”; mentre i più radicali già rim­piangono che non sia stata presa in considerazione la so­luzione più definitiva e forse più razionale, cioè l’estensio­ne del matrimonio civile agli omosessuali.
 
Si avverte tuttavia un sento­re di cinismo, forse involonta­rio ma persistente, in questo gioco di sigle che si sovrappongono, scompaiono, riappaio­no. Il carosello delle formule, Pacs, Dico, Cus, trasforma in un’astrazione ogni dilemma implicito nella legge; la loro cancellazione dall’agenda pubblica riduce a scenetta da teatro dell’assurdo ogni even­tuale drammaticità presente nella vita autentica delle cop­pie di fatto.
 
A sua volta, ogni contraddi­zione istituzionale ma anche “filosofica”, relativa alla regolamentazione delle unioni ci­vili, viene annichilita: non ser­ve a nulla porsi la domanda, certo irritante, se è giusto che a condizioni scelte soggettiva­mente, cioè a libertà, debbano corrispondere   necessariamente dei diritti. Ciò che conta è far volteggiare un orienta­mento qualsiasi, a favore o contro, intorno alle bandieri­ne dei Dico diventati Cus.
 
Con la conseguenza implici­ta che se ogni volta si riesce a trasformare un problema em­pirico, e anche una questione etica e politica, in una sigla, ciò equivale a prendere la realtà e sfumarla in un miraggio. Che none propriamente il compito della politica, ma è l’espressione in cui si manifesta una qua­lità manipolatoria che riduce il messaggio al mezzo, e mortifi­ca il cittadino a consumatore di slogan.