RADICALI ROMA

Dal DPEF agli enti locali

 

In questi giorni, tra le varie forze politiche del centro sinistra, si discute animatamente sull’ammontare della finanziaria e su come agire per reperire quei 30 miliardi di Euro che secondo le previsioni permetterebbero di portare il rapporto deficit/PIL al di sotto del 3% così come l’Europa ci chiede. Inizialmente, con il DPEF del Governo, la manovra doveva essere di 35 miliardi, 20 di aggiustamento netto e 15 di spese per lo sviluppo, tra cui il taglio di 5 punti del cuneo fiscale. Per le forti pressioni dell’estrema sinistra, che hanno avuto maggiore influenza rispetto ai segnali di ripresa economica e dell’imprevisto aumento degli introiti fiscali, la manovra è passata da 35 a 30 miliardi di Euro.Un errore, per migliorare la spesa pubblica si dovrebbe drasticamente diminuire la spesa corrente e avere un risanamento più deciso quando la ripresa economica è più favorevole, il cosiddetto good times, proprio come richiede il nuovo patto di stabilità. La diminuzione della spesa corrente è il modo più appropriato per migliorare permanentemente i nostri conti pubblici, non si può fare affidamento solo sull’evasione fiscale, strategia dagli esiti incerti che andrebbe accompagnata da una decisa volontà di riformare l’Amministrazione Pubblica, poiché la sua inefficienza e parassitismo costituiscono da sempre le ragioni per cui varie cerchie sociali eludono il fisco. Ha ragione Tito Boeri quando sostiene che a minor evasione fiscale devono corrispondere meno tasse, il messaggio da lanciare è ridurre le spese e non aumentare le tasse. Detto questo, però risulta fondamentale capire come il governo vorrà intervenire sulle quattro aree dove maggiormente si concentrano gli sprechi e le inefficienze: sanità, pubblica amministrazione, enti locali e pensioni. L’ultimo DPEF interessa i Comuni, non solo per i tagli, ma anche per l’apertura ad una riforma strutturale del patto di stabilità interno, con il ritorno al criterio del saldo finanziario, al posto del tetto della spesa e la restituzione agli enti locali di margini di autonomia finanziaria. Il DPEF nazionale apre la strada all’attuazione dell’art. 119 della Costituzione, cioè ad una riforma della finanza locale che vada nella direzione di un federalismo fiscale moderno e sostenibile.

La questione è complessa e ricca di insidie, i conti degli enti locali denotano una crescente insostenibilità, la crescente spesa corrente costringe la riduzione di spese per  investimenti di circa il 10% (stime Dexia-Crediop del 2005). I bilanci locali hanno uno squilibrio strutturale, infatti entrate pressoché statiche devono coprire spese di beni, servizi ed interessi altamente collegate all’inflazione. Ricordiamo che gli enti locali per legge non possono rifinanziare debito con nuovo debito e che la differenza tra spese correnti totali ed entrate correnti totali va sempre aumentando a discapito della spesa per gli investimenti. La maggior parte dei Comuni cerca di avere maggiori introiti attraverso l’innalzamento degli oneri di urbanizzazione e concessione e l’aumento delle tariffe dei servizi pubblici. Prendendo il caso del Comune di Roma, possiamo notare che sia le entrate che le uscite correnti, per l’anno 2005, si attestano intorno i 3 miliardi di Euro, la spesa corrente è cresciuta in primo luogo per il rinnovo del contratto del personale e per i riflessi finanziari della mobilità verticale ed orizzontale, ma anche per l’aumento del 9.4%, dal 2004 al 2005, della spesa dei beni e dei servizi (sociale, istruzione pubblica, territorio, ambiente e cultura). Si è riusciti a contenere il gap, tra uscite ed entrate, solo grazie all’attività di recupero dell’evasione fiscale che ha fatto segnalare un significativo risultato nei diversi comparti tributari, in particolare nell’ICI, e alla progressiva diminuzione delle esigenze derivanti dal pagamento degli interessi che passano da 428 milioni di Euro nel 1988 a 317 milioni di Euro del 2005. Comunque tutto questo non ha esentato il Comune di Roma nel dover far ricorso al mercato creditizio per coprire il 49.8% del totale delle spese di investimento (869milioni di Euro).

La città di Roma ha un debito di 6.933 milioni di Euro, notevolmente cresciuto rispetto ai 6.139 milioni di euro del 1999. Un debito così alto richiede riforme strutturali, la strada da seguire è il taglio della spesa pubblica e non certo l’imposizione di nuove tasse. Una soluzione forte e duratura è la liberalizzazione dei servizi. Lo “statalismo locale” cioè il sistema delle utilites  municipali e degli affidamenti in house dei servizi, ha come diretta conseguenza quella di innalzare più del necessario i prezzi per le esigenze finanziarie dei Comuni (per assicurarsi flussi capitali sicuri, “i dividendi”) e ciò implica un costo elevato per le utenze produttive, con conseguente perdita di competitività delle nostre attività industriali e commerciali. Queste vere e proprie holding, economicamente inefficienti, drogano la competizione, riducono l’efficienza economica e configurano una vera e propria tassa occulta a carico dei cittadini contribuenti. Il richiamo del Presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà e il disegno di legge n. S722 Lanzillotta,  recante delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali, sono dei segnali incoraggianti per passare dallo “statalismo locale” allo “stato leggero”, uno stato che non attui più da produttore ma solo da regolatore e controllore.

La questione “municipalizzate” riguarda molto da vicino Roma, infatti il Campidoglio possiede partecipazioni sia nei tradizionali settori delle utilites, quali acqua, energia, igiene ambientale e trasporti, ma a differenza di altre città, la Capitale ha partecipazioni anche in società che operano in settori in cui solitamente i Comuni non si cimentano: assicurazioni, latte, musica, immobiliare e servizi alla cultura. Complessivamente sono circa 20 aziende ed il Comune nella maggior parte dei casi è l’unico proprietario o ne detiene comunque il controllo. Il capitale sociale di tutte queste aziende si aggira intorno ai 2 miliardi di Euro. La rivoluzione sulle utilites sarà un opportunità per il Comune di Roma, offrirà ai cittadini servizi migliori a tariffe più basse e permetterà di avere minori spese correnti. Questa è una delle riforme strutturali di lunga durata che permetterebbe al Campidoglio una maggiore politica degli investimenti, una forte diminuzione delle spese correnti (si pensi che solamente nel settore dei trasporti, la spesa corrente del Comune di Roma, per il solo 2005, è di 600 milioni di Euro) e un respiro maggiore sul deficit comunale.

Infine una breve riflessione sulla Pubblica Amministrazione. Grazie all’articolo “I sindacati e i nullafacenti” di Pietro Ichino, sul “Corriere della Sera”, si è aperto un bel dibattito sull’efficienza dei dipendenti statali. La questione pubblico impiego, a mio avviso, è strettamente collegata  a quelle delle consulenze esterne di cui gli enti locali si servono e molte volte ne abusano illegalmente.

Il Testo Unico degli Enti Locali e il Regolamento sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi è molto chiaro: tutti gli incarichi esterni possono essere ammessi solo qualora venga provata che la professionalità e la specificità del consulente o semplice collaboratore esterno, non sia presente in nessun altro dipendente della Pubblica Amministrazione alle dipendenze del Comune. Verrebbe lecitamente da pensare che i Comuni si servano di queste “professionalità esterne” per far fronte all’inefficienza dei dipendenti pubblici, a volte ciò corrisponde alla realtà, infatti mi trovo d’accordo con quello che giustamente scrive Ichino, la Pubblica Amministrazione ha una percentuale, a mio avviso alta, di nullafacenti o di persone a basso profilo professionale, ma l’abuso che si fa di queste “figure esterne” spesso rispon
de ad altri interessi. L’Amministrazione comunale fa veramente di tutto per verificare se all’interno del suo apparato siano presenti quelle risorse che sistematicamente si ostina a reclutare fuori? O questo è un modo, a parte rare eccezioni, che serve ai partiti per allargare e consolidare il proprio potere? Abusi di questo tipo sono stati confermati tramite la sentenza di condanna del 25 settembre 2000 della Corte dei Conti che vedeva come imputati l’ex Sindaco di Roma Rutelli e vari Assessori.

Proprio a Roma, il Sindaco Veltroni, attraverso una delibera la 621/29 ottobre 2002, dà la possibilità al Primo Cittadino, al Vice Sindaco e agli Assessori di assumere staff esterno in diversa percentuale. Per ognuno dei 16 Assessori del Comune di Roma su 11 collaboratori 4 possono essere esterni, ma l’Amministrazione si avvale anche di altre figure non di ruolo tra cui i dirigenti e collaboratori ad “alta specializzazione”. Come si può giustificare l’esborso di somme così ingenti che, specie in un bilancio vincolato dal patto di stabilità, sanno tanto di sperpero? Da un rapido sguardo del bilancio comunale la spesa complessiva annua per Roma dovrebbe aggirarsi intorno agli 88 milioni di Euro. Per motivi di trasparenza e legalità il Comune di Roma dovrebbe pubblicare on-line l’albo dei Consulenti e Professionisti con relativi incarichi e guadagni (Regolamento sull’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi del Comune di Roma deliberazione 621/29 ottobre 2002. D’accordo con Ichino, la Pubblica Amministrazione deve esser riformata per l’inefficienza di molti suoi dipendenti, ma che questo non sia un pretesto, per gli amministratori locali, per assumere, a cifre elevatissime, personale esterno di cui in larghissima parte se ne potrebbe fare sicuramente a meno.