Salgono di tono col passare dei giorni le polemiche attorno a Sergio D’Elia, oggi componente dell’ufficio di presidenza della Camera, ma già terrorista di Prima linea e condannato per concorso nell’omicidio di un agente di polizia avvenuto nel 1978, poi dissociatosi dalla lotta armata ed approdato, attraverso il partito radicale alla lotta contro la pena di morte nel mondo alla testa di “Nessuno tocchi Caino”.
Esponenti dell’opposizione, parenti di vittime e dirigenti dei sindacati di polizia continuano a polemizzare contro la presenza nella presidenza di un ramo del Parlamento di chi è stato condannato per terrorismo; che viene difeso, invece, da quanti sottolineano che si tratta di una persona che ha scontato la pena, ha cambiato vita ed è stato democraticamente eletto.
Mentre il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, nega qualsiasi problema «istituzionale» per la presenza di D’Elia nell’ufficio di presidenza.
A gettare benzina sul fuoco è stato un altro “ex” di Prima linea, Roberto Sandalo, che in un’intervista al “Giornale” ha fra l’altro sostenuto che D’Elia sarebbe stato implicato, oltre all’omicidio di Fausto Dionisi per il quale è stato condannato, anche in una rapina in cui fu uccisa una guardia giurata. Un’intervista alla quale D’Elia ha risposto annunciando querela contro l’ex compagno e il quotidiano (mentre un altro ex di Pl, Sergio Segio, si dice convinto che Sandalo abbia semplicemente fatto «dichiarazioni false»).
Nel merito, oltre alla difesa istituzionale di Bertinotti, D’Elia riceve la solidarietà di quanti giudicano ora strumentali, ora semplicemente sbagliate o inopportune, le polemiche. Fra questi, Roberto Giachetti, della Margherita, dice che D’Elia «è un uomo che ha commesso degli sbagli, ma li ha pagati», ed oggi «è un’altra persona»; mentre Giuliano Pisapia, del Prc, dice che bisogna «cercare di far comprendere ai familiari delle vittime e ai parlamentari in buona fede» che D’Elia, dopo aver scontato la sua pena ed aver poi lottato contro la pena di morte, «deve avere gli stessi diritti degli altri». Anche un esponente della Cdl, Enzo Raisi di An, difende il diritto di chi «ha pagato i suoi conti» e non ha «nulla a che fare con il suo passato». Qualcuno, come Fulvia Bandoli (Ds), ipotizza un tentativo di alzare polvere su D’Elia per fermare l’amnistia. Mentre semmai, per il verde Paolo Cento, proprio il caso D’Elia dovrebbe essere spunto per allargare l’amnistia ai reati degli “anni di piombo”, commessi dai gruppi di destra e di sinistra.
Ma l’argomento più delicato resta quello dei parenti delle vittime, molti dei quali esprimono dissenso o vera protesta per l’incarico affidato a D’Elia. Su questo punto, il segretario radicale Daniele Capezzone obietta che se il dolore dei parenti è «comprensibile e profondo», questo non può essere motivo di polemica, né va usato strumentalmente contro chi da anni si batte «per la non violenza e contro la pena di morte». Per contro, c’è chi solleva su D’Elia una questione di opportunità, invitandolo a risolverla con le dimissioni dall’ ufficio di presidenza. L’ipotesi delle dimissioni, suggerita da esponenti dei sindacati di polizia, è rilanciata da Francesco Giro, di Forza Italia, che precisa di rispettare chi ha scontato la pena ed ha il diritto di essere eletto, ma ritiene che accanto a Bertinotti nell’ufficio di presidenza «ci debbano stare non dei semplici deputati, ma anche degli onorevoli».
Intanto, Giro annuncia che quando D’Elia leggerà i resoconti quale segretario, uscirà dall’aula «in punta di piedi». Anche per Michele Vietti, portavoce dell’Udc, un «passo indietro» di D’Elia sarebbe auspicabile; non per «criminalizzare» nessuno, ma per esercitare la «necessaria prudenza» nel valutare la «compatibilità tra ruoli istituzionali e storia di ciascuno».