RADICALI ROMA

Dove finisce l'otto per mille segreto da un miliardo di euro

Le campagne dell’«otto per mille» della Chie­sa cattolica, che ogni primavera invadono l’etere, Rai, Mediaset e radio nazionali, so­no considerate nel mondo pubbli­citario un modello di comunica­zione. Ben girate, splendida foto­grafia, musiche di Morricone, sto­rie efficaci, a volte indimenticabili. Chi non ricorda quella del 2005, imperniata sulla tragedia dello tsunami? Lo spot apre su un fragile vil­laggio di capanne, dalla spiaggia i pescatori scalzi scrutano l’oriz­zonte cupo. Voce fuori campo: «Quel giorno dal mare è arrivata la fine, l’onda ha trasformato tutto in nulla». Stacco sul logo dell’otto per mille: «Poi dal niente, siete arrivati voi. Le vostre firme si sono trasfor­mate in barche e reti». Zoom su barche e reti. «Barche e reti capaci di crescere figli e pescare sorrisi». Slogan: «Con l’otto per mille alla Chiesa cattolica, avete fatto tanto per molti». Un capolavoro.

 

 

 

La campagna 2005, affidata co­me le precedenti alla multinazio­nale Saatchi & Saatchi, secondo Il Sole24 Ore è costata alla Chiesa no -ve milioni di euro. Il triplo di quan­to la Chiesa ha poi donato alle vitti­me dello tsunami, tre milioni (fonte Cei), lo 0,3 per cento della rac­colta. Nello stesso anno, l’Ucei, l’u­nione delle comunità ebraiche ita­liane, versò per lo Sri Lanka e l’Indonesia 200 mila euro, il 6 per cento dell’«otto per mille». Un’of­ferta in proporzione venti volte superiore, in un’area dove non esi­stono comunità ebraiche.

 

 

 

Gli spot della Chiesa cattolica sono per la maggioranza degli ita­liani l’unica fonte d’informazione sull’otto per mille. Consegue una serie di pregiudizi assai diffusi. Credenti e non credenti sono con­vinti che la Chiesa cattolica usi i fondi dell’otto per mille soprattut­to per la carità in Italia e nel terzo mondo. Le due voci occupano la totalità dei messaggi, ma costitui­scono nella realtà il 20 per cento della spesa reale, come conferma Avvenire, che pubblica per la pri­ma volta il resoconto sul numero del29settembre.L’80percentodel miliardo di euro rimane alla Chie­sa cattolica.

 

 

 

Tanto meno gli spot cattolici si occupano d’informare che le quo­te non espresse nella dichiarazio­ne dei redditi, il 60 per cento, ven­gono comunque assegnate sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso e finiscono dunque al 90 per cento nelle casse della Cei. Questo compito in effetti spette­rebbe allo Stato italiano. Lo Stato avrebbe dovuto illustrare e giusti­ficare ai cittadini un meccanismo tanto singolare di «voto fiscale», unico fra i paesi concordatari. In Spagna per esempio le quote non espresse nel «cinque per mille» re­stano allo Stato. In Germania lo Stato si limita a organizzare la rac­colta dei cittadini che possono scegliere di versare l’8 o 9 per cento del reddito alla Chiesa cattolicao lute­rana o ad altri culti.

 

 

 

Il principio dell’assoluta volon­tarietà è la regola nel resto d’Euro­pa. Lo Stato italiano lo adotta infat­ti per il «cinque per mille». Anzi, fa di peggio. Il «cinque per mille» è nato nel 2006 per destinare appunto lo 0,5 dell’Irpef (660 milioni di eu­ro, stima ufficiale delle Entrate) a ricerca e volontariato. Nel primo (e unico) anno hanno aderito il 61 per cento dei contribuenti, contro il 40 dell’ «otto per mille»: un successo enorme. Le sole quote volontarie ammontano a oltre 400 milioni. Ma con la Finanziaria del 2007 il governo ha deciso di porre un tetto di 250 milioni al fondo, che si chia­ma sempre «cinque per mille» ma è ridotto nei fatti a meno del due.Le quote eccedenti verranno preleva­te dall’erario. Con una mano lo Sta­to dunque regala 600 milioni di quote non espresse alla Cei e con l’altra sottrae 150 milioni di quote espresse a favore di onlus e ricerca. Nella stessa pagina del modulo730 il «voto fiscale» espresso da un cit­tadino in alto a favore delle chiese vale in termini economici quattro volte il voto nel «cinque per mille». Perché due pesi e due misure?

 

 

 

Lo Stato in diciassette anni non ha speso una parola pubblica, uno spot, una pubblicità Progresso, per spiegare il senso, il meccanismo e la destinazione reale dell’otto per mille. Ed è l’unico «concorrente» che ne avrebbe i mezzi, oltre al dovere morale. Gli altri (Valdesi, Ebrei, Luterani, Avventisti, Assem­blee di Dio) dispongono di fondi minimi per la pubblicità, peraltro regolarmente denunciati nei resoconti. Mentre la Chiesa cattolica è l’unica a non dichiarare le spese pubblicitarie, riprova di scarsa tra­sparenza.

 

 

 

L’unica voce a rompere il silen­zio dello Stato fu nel 1996 quella di una cattolica, come spesso accade, la diessina LiviaTurco, allora mini­stro per la Solidarietà. Turco pro­pose di destinare la quota statale di otto per mille a progetti per l’infanzia povera. Il «cassiere» pontificio, monsignor Attilio Nicora, rispose che «lo Stato non doveva fare con­correnza scorretta alla Chiesa». Fi­ne del dibattito. Oggi Livia Turco ri­corda: «Nella mia ingenuità, pensavo che la mia proposta incon­trasse il favore di tutti, compresa la Chiesa. L’Italia è il paese continen­tale con la più alta percentuale di povertà infantile. Al contrario la reazione della Chiesa fu durissima, infastidita, e dalla politica fui subi­to isolata. Ho vissuto quella vicen­da con grande amarezza».

 

 

 

La politica non ha mai più osato fare «concorrenza» alla Chiesa cat­tolica, anzi l’ha favorita con un pessimo uso del fondo. Nel 2004 i me­dia hanno dato grande risalto alla trovata del governo Berlusconi di utilizzare 80 dei 100 milioni ricevu­ti dall’otto per mille per finanziare le missioni militari, in particolare in Iraq. Degli altri venti milioni, quasi la metà (44,5 per cento) sono finiti nel restauro di edifici di culto, quindi ancora alla Chiesa. La per­centuale di «voti» allo Stato italiano è crollata dal 23 per cento del 1990 all’8,3 del 2006.

 

 

 

All’atteggiamento remissivo dello Stato italiano ha fatto da con­traltare una crescente aggressività da parte delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto dei politici al se­guito, cattolici e neo convertiti, nel rivendicare il denaro pubblico. In agosto, quando la commissione europea ha chiesto lumi al governo Prodi sui privilegi fiscali del Vatica­no, nell’ipotesi si tratti di «aiuti di Stato» mascherati, l’ex ministro Roberto Calderoli, già protagonista delle battaglie anticlericali della Lega anni Novanta,ha chiesto al Papa di «scomunicare l’Unione Euro­pea». Rocco Buttiglione ha avanza­to un argomento in disuso fra gli in­tellettuali dai primi del ‘900, ma oggi di gran moda. Secondo il quale i privilegi concessi dalla Stato al Va­ticano sarebbero «una compensa­zione per la confisca dei beni eccle­siastici dello Stato Pontificio».

 

 

 

Un revanscismo già sepolto dal­la Chiesa del Concilio. Nel 1970 Paolo VI aveva «festeggiato» con la visita in Campidoglio la breccia di Porta Pia: «atto della Provvidenza», una «liberazione» per la Chiesa da un potere temporale che ne osta­colava l’autentica missione. Joseph Ratzinger scrive ne «Il sale della terra»: «Purtroppo nella storia è sempre capitato che la Chiesa non sia stata capace di allontanarsi da sola dai beni materiali, ma che questi le siano stati tolti da altri; e ciò, al­la fine, è stata per lei la salvezza».

 

 

 

La legge 222 del 1985 istitutiva dell’otto per mille, perlopiù scono­sciuta ai polemisti, in ogni caso non accenna ad alcuna forma di «risarcimento» per le confische (argomento insensato nell’Italia di vent’anni fa). Lo scopo primario della legge di revisione del Concor­dato fascista del ’29 era di garanti­re un sostituto della «congrua», ov­vero lo stipendio di Stato ai sacerdoti. Nei primi anni lo Stato s’im­pegnava infatti a integrare l’otto per mille, fino a 407 miliardi, nel
ca­so di una raccolta insufficiente per pagare gli stipendi. In cambio il Va­ticano accettava che una commis­sione bilaterale valutasse ogni tre anni l’ipotesi di ridurre l’otto per mille nel caso contrario di un getti­to eccessivo.

 

 

 

Ora, dal 1990 al 2007, l’incasso per la Cei è quintuplicato e la spesa per gli stipendi dei preti, complice la crisi di vocazioni, è scesa alla metà, dal 70 al 35 per cento. Eppu­re la commissione italo-vaticana non ha mai deciso un adeguamen­to. Perché? Senza avventurarsi in filosofia del diritto, si può forse rac­contare il percorso di uno dei componenti laici della commissione, Carlo Cardia. Il professor Cardia, insigne giurista di formazione co­munista, consigliere di Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ha esordito da fiero «difensore del diritto nega­to in Italia all’ateismo» («Ateismo e libertà religiose», De Donato, 1973). Nel 2001 è Cardia a invocare una riduzione dell’otto per mille, in un saggio pubblicato dalla presidenza del consiglio: «Dall’otto per mille derivano ormai alla Chiesa cattolica, meglio: alla Cei, delle somme veramente ingenti, che hanno superato ogni previsione. Si parla ormai di 900-1000 miliardi l’annodi lire. Il livello è tanto più al­to in quanto il fabbisogno per il sostentamento del clero non supera i 400-500 miliardi. Ciò vuoi dire che la Cei ha la disponibilità annua di diverse centinaia per finalità chia­ramente “secondarie” rispetto a quella primaria del sostentamento del clero; e che lievitando così il li­vello del flusso finanziario si po­trebbe presto raggiungere il para­dosso per il quale è proprio il so­stentamento del clero ad assume­re il ruolo di finalità secondaria».

 

 

 

Previsione perfetta. «Tutto ciò —concludeva Cardia—portereb­be a vere e proprie distorsioni nel­l’uso del danaro da parte della Chiesa cattolica; e, più in generale, riaprirebbe il capitolo di un finan­ziamento pubblico irragionevole che potrebbe raggiungere la soglia dell’incostituzionalità se riferito al valore della laicità quale principio supremo dell’ordinamento».

 

 

 

Nel tempo il professor Cardia è diventato illustre collaboratore di Avvenire, il giornale dei vescovi. I suoi temi sono cambiati: l’apolo­gia del rapporto fra i giovani e Be­nedetto XVI, la lotta ai Dico, l’esal­tazione del Family Day. Ciascuno naturalmente ha il diritto di cam­biare idea. Ma è opportuno che, avendole cambiate sul giornale della Cei, continui a far parte di unas commissione governativa chia­mata a stabilire quanti soldi lo Sta­to deve versare alla Cei? Nell’ulti­mo editoriale su Avvenire il professor Cardia tuona contro l’inchiesta di Repubblica, «una delle più co­lossali operazioni di disinforma­zione degli ultimi tempi».

 

 

 

Senza contestare nel merito un singolo dato, nega con veemenza che la Chiesa costi troppo agli ita­liani e s’indigna per «l’indecente» accostamento con la «casta». E’ lo stesso professor Cardia che il 20 febbraio scorso dichiara in un’intervista: «Io porterei la quota del­l’otto per mille al sette, vista l’im­ponente massa di danaro che smuove. Basti pensare che dall’84 a oggi nessuno, se non per controversie politiche,vi ha posto mano». Con le altre confessioni lo Stato è assai meno generoso. In risposta a un’interrogazione dei soliti radi­cali, nel luglio scorso il ministro Vannino Chiti ha citato come pro­va della bontà del meccanismo «il fatto che anche i valdesi hanno chiesto e ottenuto le quote non espresse». Chiesto sì, ottenuto mai. Incontro la «moderatrice» della Tavola Valdese, Maria Bonafede, il «Ruini» dei valdesi, nella modesta sede vicino alla Stazione Termini. «Per motivi etici avevamo rinunciato alle quote non espres­se, ma nel 2000, visto l’uso che ne faceva lo Stato, le abbiamo chiese. Abbiamo incontrato governi di de­stra e di sinistra, il vecchio Letta e il nuovo. Ogni volta ci rinviano. Se la ottenessimo oggi, la vedremmo solo nel 2010. Lo Stato anticipa i soldi alla Cei, ma agli altri li versa con tre anni di ritardo».

 

 

 

Ai valdesi sono andati nel 2006 circa 5 milioni 700 mila euro, ma avrebbero diritto a oltre 13 milioni. Il resto lo trattiene lo Stato. La Ta­vola Valdese usa i soldi dell’otto per mille al 94 per cento per la carità e il rimanente alla pubblicità. I pasto­ri valdesi vivono delle donazioni spontanee. Lo stipendio base, uguale dalla «moderatrice» all’ulti­mo pastore, è di 650 euro al mese. Maria Bonafede spiega: «I soldi dell’otto per mille arrivano dalla società e vi debbono tornare. Se una Chiesa non riesce a mantener­si con le libere offerte, è segno che Dio non vuole farla sopravvivere».

 

NOTE

hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco