In Italia secondo l’Istat esistono 199 “distretti” industriali. Le statistiche ci dicono che queste realtà territoriali generano il 27% circa del Pil e il 38% del valore aggiunto industriale, occupando il 44% degli addetti manifatturieri del Paese. Cercare di rafforzare i distretti per ridare competitività all’economia è quindi un aspetto lodevole della Finanziaria 2006 predisposta dal ministro Tremonti, anche se l’articolo 53 andrà probabilmente ridisegnato sotto alcuni profili. Ma la direzione è quella giusta, come da tempo ha indicato il Presidente Ciampi, che nel corso del suo mandato ha percorso incessantemente le province distrettuali italiane, da Reggio Emilia a Belluno, da Massa Carrara a Verbania, cogliendovi importanti elementi di fiducia sulle capacità di rilancio della nostra economia. Inoltre i distretti sono un classico tema bipartisan , come prova, ad esempio, l’interesse che ad essi viene rivolto dal Gruppo interparlamentare per la sussidiarietà. Speriamo quindi che questa sia finalmente la volta buona per impostare una seria e condivisa politica di sostegno ai nuclei territoriali di piccole e medie imprese che nel corso degli anni si sono sviluppati e specializzati in Italia in produzioni particolari, dalle calzature agli occhiali, dai rubinetti alla “meccatronica”, dalle cappe aspiranti per le cucine al biomedicale.
E’ questa realtà che fa dell’economia della nostra Penisola un caso unico al mondo, studiato e portato alla attenzione generale da economisti come Fuà e Becattini. Ma per molti, curiosamente, parlare di distretti significa oggi parlare esclusivamente di realtà agonizzanti o obsolete. Con ciò semplificando assai il problema, perché non esiste una crisi del modello produttivo-organizzativo dei distretti in quanto tale, bensì una situazione di difficoltà di alcuni settori particolarmente esposti alla concorrenza asimmetrica e sleale asiatica, come il tessile e le calzature, indipendentemente dal fatto che le imprese di questi settori siano organizzate per distretti o siano, al contrario, “isolate” sul territorio. In altri comparti, dalla meccanica agli articoli in materie plastiche, dal mobilio alle piastrelle, il modello dei distretti continua invece a funzionare discretamente, pur con qualche problema (perché l’aggressività cinese non risparmia nessuno).
E a riprova di ciò si possono considerare due aspetti, entrambi cruciali. Innanzitutto quello dell’apporto fondamentale del “territorio” alla bilancia commerciale manifatturiera del Paese. Quest’ultima nel 2004 ha fatto registrare un attivo di 37,3 miliardi di euro, che è il risultato della somma di 62 prodotti in surplus (per 109,4 miliardi) e di 33 prodotti in deficit (per 72,1 miliardi). Va notato che tra i 62 prodotti in surplus ben 45 (cioè quasi i 3/4) presentano un contributo alle rispettive esportazioni da parte dei distretti che va da un minimo del 40% a punte del 60-70% per piastrelle, calzature, tessuti, gioielli, maglie e calze, rubinetti, ecc. In secondo luogo, sbagliano davvero molto coloro che contrappongono le emergenti “medie imprese”, ritenute la “nuova Italia manifatturiera”, ai distretti, giudicati in declino. Prova ne è che tra il 1991 e il 2001 il saldo netto di aumento delle medie imprese manifatturiere con 50-499 addetti è stato in Italia di 305 unità e che un ristretto campione di 20 distretti ne ha create da solo 281, dimostrando che, se vogliamo avere nuove aziende leader in grado di reggere la competizione globale, ancora una volta è soprattutto sul territorio che dobbiamo puntare.