La stabilità e l’efficacia del futuro governo di centrosinistra dipenderanno non solo dalla leadership di Romano Prodi, ma anche dall’emergere di un baricentro della coalizione, ovvero dalla trasformazione della lista dell’Ulivo nel Partito democratico. Le acute osservazioni di Michele Salvati (Corriere del 16 aprile) mi inducono ad affermare che tale processo dev’essere chiaramente condiviso anche da chi viene dal filone del cattolicesimo sociale, da chi, insomma, crede nell’incontro tra diverse culture riformatrici per far nascere una formazione politica capace di offrire soluzioni adeguate ai problemi nuovi del Paese. La nascita del Partito democratico non può però avvenire come sommatoria di forze troppo eterogenee. Non può ispirarsi al criterio «di tutto, di più». Sono da respingere le recenti affermazioni di alcuni esponenti della Rosa nel pugno, per cui il Partito democratico non potrebbe venire alla luce senza l’apporto della cultura radicalsocialista. Sia detto con chiarezza: il Partito democratico che vorrei ha un orizzonte politico-culturale alternativo a quello che ha ispirato il nascere della Rosa nel pugno. Dunque se il Partito democratico sarà aperto ai radicali ne resterei fuori. E non solo per l’incolmabile distanza sui temi eticamente sensibili.
Innanzitutto il Partito democratico dev’essere una forza politica laica, nè confessionale, ma neppure laicista. Deve far propria la recente lezione di un intellettuale laico, di sinistra Jurgen Habermas che, nel dialogo con l’allora cardinale Ratzinger, affermava che nella società postsecolare occorre che le diverse confessioni religiose possano apportare il loro contributo alla costruzione della democrazia. E’ dunque da respingere una visione che chiede ai cristiani e alla chiesa di autoconfinarsi in uno spazio meramente privato. Questo significa voler cancellare la Storia, non riconoscere l’originalità dell’apporto dei cattolici alla vita pubblica, a cominciare dalla Carta costituzionale. Il Partito democratico, poi, dovrà avere un chiaro impianto riformatore equilibrando il valore della libertà con quello dell’equità. Anche qui l’approccio ai principali problemi nuovi della società – della conoscenza dal lavoro flessibile all’invecchiamento della popolazione – segna una netta distanza dall’impostazione liberista sottostante alla cultura e al programma dei radicali.
Terzo: il Partito democratico dovrà rispettare l’originalità e l’autonomia delle formazioni sociali intermedie. La forza di una democrazia non si misura solo sull’affermazione dei diritti individuali o sulla partecipazione al voto; ma dipende grandemente da quella che Alexis de Tocqueville chiamava l’ars associandi. Una democrazia moderna ha bisogno di corpi sociali robusti, autonomi e radicati: espressione sia delle parti sociali tradizionali che dcl mondo del non profit.
Infine, il Partito democratico non può che avere un chiaro orizzonte europeista. Non antiamericano, ma neppure subalterno agli Usa. Anche qui esiste una distanza profonda da chi, come i radicali, ha approvato l’intervento americano in Iraq. Un’Europa potenza civile: questa la stella polare per il Partito democratico. Un’Europa e un’Italia con uno sguardo particolare verso l’Africa. Ciò che faremo per e con l’Africa sarà la soglia etica del nostro agire politico.
Ci vuole coraggio: non ci sono all’orizzonte piccoli o grandi «centri». E’ tramontato il tempo dei partiti di ispirazione cristiana. Non è invece da disperdere una tradizione, dei valori, una rete di presenze di cristiani nella vita sociale ancora capaci di misurarsi con le sfide di una società postsecolare. Ma il percorso verso il Partito democratico non va compiuto in solitudine; è tempo di riunire persone, forze e movimenti che sono pronte a far vivere quei valori in una nuova prospettiva, in un nuovo inizio. Nella chiarezza delle scelte e guardando bene ai compagni di viaggio: certamente la Margherita e i Ds, ma anche quei quattro milioni di cittadini che hanno votato per le primarie sono parte integrante del nuovo equipaggio.
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