RADICALI ROMA

Ernesto Rossi. Il sogno europeista di un “pazzo malinconico”

“Al confino, e poi uscito dal carcere, non ho fatto altro che lavorare per la realizzazione dell’unità federale europea. E sono qui, in Svizzera, per questo”. Così scrive il qurantasettenne Ernesto Rossi (classe 1897) al suo amico Alberto Tarchiani, esponente del partito d’Azione e futuro ambasciatore italiano a Washington. E’ il dicembre del 1944. Da poco più di un anno Rossi si trova in Svizzera, appunto, dopo averne scontati nove di prigione e tre di confino a Ventotene (lì ha redatto, insieme ad Altiero Spinelli, il famoso Manifesto europeista). Ora, in esilio, l’Europa continua a essere più che mai al centro dei suoi ideali. “L’”idea” domina la prima parte dell’Epistolario 1943-1967 – Dal Partito d’Azione al centro-sinistra, che è in uscita presso Laterza a cura di Mimmo Franzinelli (pagg.554, euro 38).
 
Di europeismo Rossi discorre per lettera con gli amici più cari, da Bauer allo stesso Spinelli, da Colorni a Valiani, da Marion Rosselli, vedova di Carlo, ad Ursula Hirschmann. Scrivendo a Luigi Einaudi, esule a Basilea, lo informa con minuzia di ciò che “è stato fatto finora qui in Svizzera per l’idea federalista”.
 
Il suo attivismo si esercita senza respiro. A Lugano egli provvede alla stesura di trattati, opuscoli, “quaderni”, lettere circolari e volantini da indirizzare, ciclostilati, ai cittadini di ogni nazionalità internati in terra elvetica, perché “domani possano farsi propagandisti” dell’Unione Federale Europea. A Ginevra si dedica alla creazione del Centre pour la Fédération Européenne.
 
“Se non riusciamo noi, elementi progressisti dei diversi paesi”, scrive a Riccardo Bauer, “a imporre l’unione federale dell’Europa, tutto quello che potremmo fare nell’ambiro del nostro stato nazionale non avrà significato”.
 
Si chiama La Nuova Europa il settimanale che Rossi scopre nel maggio del ’45 appena tornato in Italia. In questa testata, diretta da Luigi Salvatorelli, egli scorge “uno dei pochissimi sintomi della esistenza di forze capaci di salvare ancora la nostra civiltà dall’estrema rovina”. Sono, sotto una parvenza d’elogio, parole sconsolate. E tali resteranno lungo i suoi umori di reduce. Ad Eugenio Reale, poco più tardi, fa sapere: “Vedo buio nell’avvenire”. In un’altra lettera versa un mucchio di delusioni. Perfino, ormai, sull’Europa. “La guerra”, argomenta, “ha portato a una situazione in cui l’unificazione federale è un’idea più utopistica della Città del Sole di Tommaso Campanella”. Si vive “in attesa della nuova guerra mondiale”. E altrove: L’Italia è in pieno “marasma”. E così la Repubblica “nata tisicuccia, tisucuccia, non ha avvenire”. Come comportarsi, allora? “In conclusione, me ne sto in disparte perché non so cosa fare”. D’altronde – e qui risponde a Marion Rosselli che lo rimprovera per il suo pessimismo – “io non ho mai preteso di essere un uomo di Stato”. Sono invece, “un povero diavolo d’intellettuale”. “Un limone spremuto”, si definisce scrivendo ancora a Reale.
 
E tuttavia “il limone” qualche po’ di succo deve ancora contenerlo, se negli incarichi che via via assume – sottosegretario alla ricostruzione con Parri e presidente dell’ARAR, un’azienda per l’alienazione dei residuati bellici – Ernesto Rossi si muove con energia e competenza.
 
Fra il ’45 e il ’46 domina, nell’ambiente laico e antifascista, il tema del partito d’Azione, nato nel ’41 ed erede di Giustizia e Libertà. Se ne discute con accanimento. E’ tuttavia facile osservare come il dibattito su quel partito riguardi soprattutto i tempi e i modi del suo scioglimento che un simile destino appaia prematuro. Nulla di più congeniale, in effetti, rispetto al “cupio dissolvi” politico che Rossi va manifestando. Abbastanza transitoria si rivelerà la sua proposta di confluire, in quanto ex azionisti, nel PSI nenniano. I motivi per i quali l’ipotesi sfiorisce sono quelli che più tardi, nel luglio del 1951, l’autore dell’epistolario esporrà in una missiva allo stesso Nenni: “Non sono e non sono mai stato marxista, e la dittatura del proletariato ha, per me, lo stesso puzzo di tutte le altre dittature”.
 
Schietto e sintetico. Ma di giudizi ancor meno diplomatici sul PSI, l’epistolario è pieno. Ha scritto per esempio Rossi nel 1944: “Quando si accetta il programma e il metodo comunista” non c’è “alcuna ragione di formare un partito separato”. Oppure in una lettera a Lelio Basso datata 10 settembre 1963: “Il pateracchio con la DC” è “divenuto per il PSI una questione di vita o di morte, perché da quando ha rotto l’alleanza con il PCI, ha dovuto rinunciare alle principali fonti di finanziamento. Il nocciolo del problema è nei quattrini”. Guardando altrove, i suoi umori non migliorano: il PCI gli pare “un partito nazionalista straniero”.
 
Giudica “ammuffito” il partito repubblicano. Gli danno “poco affidamento2 i socialdemocratici, sbocciati all’alba del ’47, e avrà poi occasione di giudicare Saragat “un cretino”.
 
Insomma, quella offerta dal “nostro glorioso partitino d’azione” è stata per Rossi una delusione cocente. Ma la delusione è dovunque. Tanto vale rifugiarsi nel recinto dei “Pazzi malinconici”, così li chiamava il suo maestro Salvemini, dedicandosi a “studiare i problemi economici” e a “rompere le scatole ai Padroni del vapore, ai Principi della Chiesa e agli altri Personaggi più importanti del nostro Paese”.
 
Per oltre un decennio questa incombenza gli calzerà alla perfezione. Leggendo il libro curato da Franzinelli, è forte la tentazione di periodizzare così il contenuto (e di riflesso, la vita di Ernesto Rossi, dopo il carcere): due grandi disinganni politici – l’azionismo e poi, lo vedremo subito, il Partito radicale – frammezzati da un febbrile successo: il giornalismo d’inchiesta e di denuncia. Prima nell’Italia socialista, e poi soprattutto nel Mondo, lungo gli interi anni Cinquanta, il nome di Ernesto Rossi sarà sinonimo di un modo di trattare “il caso Italia” con una carica del tutto inusitata di passione e di rigore, energia ed umorismo, aggressività mista e disinteresse. I suoi articoli sui temi più disparati dell’economia “vissuta” della storia politica e della vita civile, i libri che li raccoglieranno – da Settimo non rubare a lo Stato industriale, dal malgoverno ai Padroni del vapore, dal Sillabo e dopo al manganello e l’aspersorio, fino ad Elettricità senza baroni – i convegni degli “amici del Mondo” che ad essi faranno seguito e il dibattito fra Rossi e il presidente della Confindustria Angelo Costa (novembre 1955), testimoniano nel loro complesso uno dei rari esempi di vigore ed efficacia offerti dalla sinistra democratica.
 
Forse, il fatto che quella stagione s’interrompesse in maniera penosa – rientrava nel destino di Esto (così Rossi firmava le sue lettere). O forse esso gravava come una maledizione sulle sorti della sinistra italiana più riflessiva e moralmente irreprensibile. Il Partito radicale, nato nel 1956, si dissolverà – salvo la sopravvivenza che gli assicurerà Pannella e sulla quale verte la lettera a lui inviata da Rossi – a partire dal 1962. Le analogie fra la “dolorosa istoria” azionistica e la “schifosissima storia” radicale (entrambe le definizioni sono di Esto) si offrono alla valutazione dei lettori nelle numerose pagine che l’epistolario dedica all’argomento. E così le ragioni e i torti dei protagonisti: tra i quali lo stesso Rossi che sembrò aver deposto, nell’occasione il suo habitus di “non politico”.
 
Peccati di personalismo, in una cornice autolesionistica, vennero commessi da entrambe le parti: da un lato Mario Pannun
zio, direttore del Mondo, e gli uomini a lui più legati, da Leone Cattani a Nicolò Carandini, e dall’altro – con i suoi amici, fra i quali Rossi – quel Leopoldo Piccardi, la cui partecipazione a un convegno tenutosi a Vienna nel marzo del ’39 e l’estensione della risoluzione finale su “razza e diritto” lo espose all’indignazione degli avversari “interni”. Quel lontano episodio era stato documentato in una nota del volume di Renzo De Felice Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo (1961). Ma probabilmente, il dissidio, rivelatosi subito insanabile, verteva su idee diverse in politica: i  liberali di sinistra, alla Pannunzio, erano “atlantici” e legati alla “terza forza”; mentre Piccardi e i suoi sostenitori erano più vicini al socialismo nenniano e tendenzialmente neutralisti. “Il Partito radicale era stato un fiasco” scriverà Esto a Leo Valiani. “Dopo un calcio al fiasco, come l’avevano dato Pannunzio e Ci, non si potevano più mettere insieme i cocci”. D’accordo sui cocci irreparabili. Ma che quel partito fosse un fiasco è contraddetto, se non altro, dai buoni risultati conseguiti alle “amministrative” del 1960, dove gli eletti radicali furono 52 fra comuni e province.
 
Dal litigio, che sfocia in una querela che gli costa la collaborazione al Mondo, Rossi esce “abbacchiato” (e lo confessa).
 
Ma è un eufemismo. La sua attivistica generosità lo porta ora a trovare dei surrogati a ciò che lo aveva reso illustre (e forse perfino felice) negli anni Cinquanta. Fonda un quindicinale. L’Astrolabio, ma per stanchezza ne cede la direzione a Ferruccio Parri. Vi scrive molto, ma se ne dice scontento. I Convegni del Mondo troveranno una discendenza più scialba in quelli indetti dall’Associazione Gaetano Salvemini, un’altra creatura di Rossi.
 
Ernesto morirà il 9 febbraio 1967: ora sono quarant’anni. Non sembra un caso che nell’ultimo epistolario – una lettera del 17 gennaio ’67 al nipote Carlo Pucci – egli accenni alla vicenda che lo ha amareggiato negli ultimi anni. “Piccardi ha ritirato la querela a Pannunzio”, scrive, “ha accettato il ritiro della querela”. E aggiunge: “Questa storia si è finalmente conclusa”. Dileguandosi, si direbbe, insieme a lui.