RADICALI ROMA

Europa, non dimenticare il mattatoio ceceno

Non la si nega a nessuno, ormai, una manifestazione enorme: facciamone una contro un genocidio in Europa, contro la degradazione di una fiera lotta per l’indipendenza in un capitolo del terrore internazionale. Scrivo per una volta non per esporre delle opinioni, ma per invitare a indire una grande manifestazione sulla tragedia russo-cecena. Mi rivolgo a tutti. Ai movimenti amanti della pace e dei diritti. Alle diplomazie parallele, come Sant’Egidio. Ai partiti del centrosinistra, a Rutelli, a Fassino, a D’Alema, a Cofferati, a Bertinotti e agli altri dirigenti.
Ai partiti di governo, compresi quelli che augurano un’intimità crescente fra Unione europea e Russia di Putin, e non vedono come, al di là di ogni valutazione politica, l’auspicio suoni indecente fino a che non si cancelli l’infamia della guerra cecena. Ai direttori di giornali e telegiornali. Al Campidoglio di Veltroni, tribuna mirabile per chi non ha voce. Le orribili stragi degli scorsi giorni – annunciate, annunciatissime – provano ancora, se ce ne fosse bisogno, che non ci sarà pacificazione di quel martoriato piccolo paese attraverso la repressione o la resistenza militare.
Le stragi suicide sono detestabili, in Cecenia e dovunque, e sono condannate dai capi militari della resistenza indipendentista, come Aslan Maskhadov. Esse sono ispirate da signori della guerra, come Shamil Basaev o suoi nuovi emuli, passati ormai da un patriottismo caucasico a un irredentismo islamista, e embrionalmente legati attraverso uomini e denaro al terrorismo islamista arabo e asiatico. (Tuttavia, nonostante le voci di allora, non un ceceno fu trovato, né vivo né morto, fra i combattenti afgani). Ma le stragi suicide non sono affatto l’opera di infiltrati arabi o di qualche internazionale del fanatismo: non ce n’è bisogno, e anzi una proverbiale fierezza cecena ripudierebbe questa eventualità. Bastano le “vedove nere” (che trista espressione) e nere figlie e figli di combattenti, pronti a immolarsi, anche solo per la passione di vendetta antirussa. I fatti dicono chiaro il fallimento e la menzogna di Putin, che costruì la propria ascesa al potere sulla promessa spavalda di liquidare l’infezione cecena.
L’irredentismo ceceno contro i russi è vecchio di secoli. Da nove anni – con brevi intervalli – tornano di nascosto dalla Cecenia le bare dei soldati russi uccisi, ormai decine di migliaia. Non c’è giorno in cui i militari russi non mettano a ferro e fuoco qualche quartiere o villaggio ceceno, non irrompano nelle case a saccheggiarle, non sequestrino civili per farli scomparire, o estorcere il riscatto per il loro rilascio, e più spesso per la riconsegna dei loro cadaveri. La tragedia della Cecenia è la tragedia della Russia. Dall’altra parte, c’è una minuscola e irriducibile popolazione – poco più di un milione di persone, all’inizio dell’ultima guerra, sì e no 700mila oggi – ben più che decimata, deportata, torturata e offesa con una vera tentazione genocida. Qualunque intenzione di negoziato e di impegno non violento è frustrata dalla violenza brutale della repressione russa, e dall’oltranzismo suicida-assassino, fanatico e cinico, dell’estremismo islamista, fino a poco fa estraneo e inviso alla tradizione del Caucaso. La liberazione della Cecenia è ormai una condizione decisiva della liberazione della Russia. E nessuna liberazione avverrà se non deponendo tutte le armi, e restituendo una voce alla popolazione civile. La popolazione civile cecena – cacciata di forza nei miserabili campi di profughi in Inguscezia e Ossezia e altrove, e ora rimpatriata di forza in città e villaggi fatti solo di macerie e terrore; o riparata nelle rovine come un popolo di topi – è un volgo disperso cui anche il nome viene rubato, un ostaggio dell’odiata e ubriaca violenza di mercenari e militari russi, e dell’usurpazione dei propri combattenti invasati di eroismo e stravolti dalle proprie rivalità.
I ceceni aspirano all’indipendenza. Il loro desiderio ha resistito a mille guerre e a obbrobri come l’estirpazione totale dalla loro terra verso le più inospitali regioni siberiane o kazake. Ma oggi, dopo più di 200mila morti in neanche un decennio, dopo più di 300mila rifugiati fuori dal paese, desiderano un po’ di pace e un po’ di vita. Bisogna che per la prima volta nella loro strenua storia siano interpellati, ascoltati, protetti.
Paolo Garimberti ha qui spiegato come nello scorso marzo un referendum organizzato da Mosca con la collaborazione del quisling filorusso, Akhmad Khadirov – il bersaglio scampato dell’attentato di martedì della “vedova nera” – abbia messo in scena la caricatura di questo pronunciamento della gente. Teso solo ad accreditare una docilità alla soggezione russa, il referendum ha fatto senz’altro votare ceceni e occupanti militari russi (ce ne sono 80mila) e giornalisti di passaggio, più votanti che abitanti vivi. Chi considera la Cecenia un affare interno del Cremlino deve accorgersi della più spaventosa gravità di un mattatoio condotto in nome di una sovranità statale, cento volte più sanguinoso di quello che tormenta Israele e Palestina. Se si voglia riconoscere un diritto russo a conservare la Cecenia nei propri confini federali, bisognerà per paradosso moltiplicare lo scandalo: perché i ceceni sono cittadini russi, e il governo russo tratta propri cittadini massacrandoli e torturandoli fino a desiderarne l’annientamento.
Tutto questo indicibile orrore si è svolto senza che in Italia ci sia stata una sola manifestazione importante di denuncia dei crimini contro l’umanità del governo e dell’esercito russo, di condanna delle stragi “suicide”, e di solidarietà con la popolazione cecena e le madri russe. Nessuna richiesta di pace è venuta per quel piccolo paese violentato. È una di quelle distrazioni delle quali a distanza di qualche anno, o di una generazione, o di un secolo, non si saprà darsi una spiegazione, e ci si sentirà invasi dalla vergogna e dallo smarrimento. Bisogna solo sbrigarsi un po’, e sentire già ora (già in spaventoso ritardo) un dolore e una vergogna insopportabili. Questa è la condizione. Poi bisogna superare gli ostacoli che hanno finora reso lo scandalo russo-ceceno in Italia una pittoresca fissazione di una mezza dozzina di persone, del partito radicale e poco più. Il primo ostacolo è come sempre l’ignoranza. La Cecenia continua a essere una paroletta buffa e inesplorata. Il secondo è la paura di fare il gioco della violenza e del terrorismo: ragionevole paura, se non che contribuisce all’effetto opposto, di lasciare all’oltranzismo armato il ruolo esclusivo di guida, e in realtà di confiscatore, della causa cecena.
C’è un’iniziativa che fa appello alla sventura comune di russi e di ceceni, e alla loro possibile fratellanza, e che ambisce non solo alla condanna del crimine di guerra e del terrorismo, ma al ripudio delle armi. Discussa con movimenti e personalità in Russia e fuori, essa è stata presentata negli Stati Uniti da Ilyas Akhmadov, già ministro degli Esteri del governo Maskhadov, regolarmente eletto nel gennaio 1997, e poi travolto dalle provocazioni islamiste e dall’invasione russa. Essa condanna la barbarie dell’occupazione russa e il suo intento genocida, e assimila loro il “coraggio assassino” del terrorismo ceceno. Chiede il disarmo delle forze cecene e il ritiro delle russe attraverso l’intervento delle Nazioni Unite e di una loro Amministrazione provvisoria, insediata per un certo numero di anni, e incaricata di ricostruire un ordine civile, politico e materiale in un paese ridotto a macerie e fosse comuni. A questo fine chiede la nomina tempestiva di un Rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per la Cecenia. Al termine di questo processo i cittadini ceceni sopravvissuti sarebbero chiamati a scegliere il proprio destino. La premessa di questo progetto di “indipendenza condizionata” è che nessuno possa sperare di vincere sul campo di battaglia, e che spetti all’Onu e alla comunità internazionale “consentire a due popoli che stanno perdendo entrambi una guerra vergognosa, di vincere insieme una pace onorevole”. Quando si nomina la comunità internazionale, bisogna ricordarsi che la Cecenia e il Caucaso sono in Europa, e anzi ne furono la culla: e che se l’Europa cercasse un’anima, la troverebbe là.
La Russia non può sentirsi offesa dalla possibilità di un intervento delle Nazioni Unite, dal momento che la Russia stessa riconobbe un’indipendenza di fatto alla Cecenia, sancita dalle elezioni del 1997, dopo la prima sanguinosa invasione.
Questo appello è sostenuto finora da singole personalità, dai radicali transnazionali, da comitati sorti in altri paesi europei: può diventare da noi lo sfondo di una mobilitazione vasta di gente movimenti e partiti. Lo so, siamo pieni di impegni. Abbiamo elezioni, referendum, finali di Coppa Campioni, vacanze al mare, processi da fare, processi da disfare. Cose serie. La Cecenia è piccola, lontana, strana, e tutti i problemi vi si riducono alla vita e la morte: delle persone, del diritto, della libertà. Facciamola, una manifestazione enorme. Mi sono rivolto, come posso da qui, a persone responsabili di partiti e movimenti e li ho trovati sensibili. Le parole d’ordine sono, per una volta, chiare e comuni: pace in Cecenia, no all’occupazione russa, no al terrorismo, proposta di un’amministrazione transitoria dell’Onu, appoggio del Parlamento europeo a questa prospettiva. E del resto ciascuno può scegliere la parola d’ordine che crede, purché la dica, una parola. Persone, giornali, partiti, movimenti, possono per una volta contribuire senza gelosie a una testimonianza di solidarietà umana che riscaldi l’anima buona di Cecenia e Russia, e riscatti l’anima nostra di italiani ed europei.

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Il “Piano Akhmadov” è disponibile sul sito del Ministero degli Affari Esteri ceceno : http://www.chechnya-mfa.info/
L’appello può essere firmato su : http://www.radicalparty.org/