È la prima volta in Europa, dal crollo del muro di Berlino, che il passato comunista si trasforma in dilemma etico, dolorosa resa dei conti con le compromissioni, le debolezze, i cedimenti che milioni di uomini e donne, oggi gettati nell’agone democratico, sentono di dover affrontare. La parabola di monsignor Stanislaw Wielgus, che si è trovato costretto a dimettersi da arcivescovo di Varsavia prima ancora di insediarsi a causa della sua acclarata (e confessa) attività di informatore della polizia politica comunista, è il simbolo della crudeltà della storia. Quanti cittadini polacchi, ungheresi, rumeni, cecoslovacchi, russi, bulgari hanno un imperdonabile segreto da nascondere. Ma è difficile immaginare, per un cittadino europeo, che non ha vissuto l’esperienza asfissiante del totalitarismo, cosa voglia dire avere a che fare con una polizia onnipotente, onnipresente, tentacolare, violenta e suadente insieme, capace di pretendere le più volgari bassezze per ottenere un permesso, un documento, un titolo di studio, un contratto di lavoro. Perciò le vicissitudini di monsignor Wielgus, se possono suscitare indignazione e sgomento, provocano anche una grandissima pena. Si è detto, nei decenni successivi allo schianto apocalittico del nazismo e del fascismo, che la Germania, l’Italia, il Giappone, la Francia collaborazionista hanno fatto i conti con il loro passato con molta, troppa riluttanza. In parte è vero. Ma la condanna morale di quei regimi, seguita alla disfatta bellica del nazi- fascismo, ha come impresso una macchia di vergogna nella biografia di chi con quei regimi si era sporadicamente o lungamente contaminato.
Una vergogna immensa. E anche il terrore di essere scoperto, messo ai margini, additato al pubblico ludibrio, costretto a pagare un prezzo troppo alto se a qualcuno fosse venuto in mente di onorare la verità e la coerenza della propria vita. Si spiega così il caso Grass e anche quello di milioni di italiani, compresa l’élite intellettuale, che hanno trascorso i decenni della democrazia nascondendo il loro passato, ritoccando le loro biografie, cancellando i segni di piccoli e grandi cedimenti. Senza contare i rigori dell’epurazione che, a dispetto di un luogo comune molto radicato, fu in Italia severa e talvolta intransigente e spietata, come si evince dagli studi di Romano Canosa e di Hans Woller, o spietata oltremisura, come è accaduto in Francia con la condanna a morte dello scrittore Robert Brasillach. Nell’Europa uscita dalle macerie del comunismo, il peso della condanna morale non ha sinora stritolato coscienze o stroncato fulgide carriere. La scrittrice Christa Wolf non ha pagato prezzi particolarmente elevati per aver prestato i suoi servigi alla Stasi della Germania dell’Est, investita del nobile compito di indicare nomi e cognomi degli intellettuali troppo tiepidi con il socialismo realizzato. Non si fa molto caso al fatto che all’origine della Romania post-comunista, oggi nuova arrivata nell’accogliente famiglia delle democrazie europee, abbiano giocato un ruolo di protagonisti molti uomini che certo qualche frequentazione con la terribile Securitate di Ceausescu l’hanno avuta. E del resto non è un mistero che il leader russo Putin abbia brillantemente scalato i vertici del potere attraverso un prestigioso cursus honorum nel Kgb. Oggi, lo scandalo nato attorno a monsignor Wielgus apre una nuova pagina: aver indicato agli aguzzini comunisti i nomi dei sacerdoti più impegnati nell’opposizione al regime viene deplorato come una macchia indelebile. È la prima volta. Chissà quanti polacchi temono che non sia l’ultima.