RADICALI ROMA

Grazia a Bompressi: la legalità ripristinata

  Finalmente. Fuori tempo massimo. In modo approssimativo. E’ incomprensibile che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non abbia avvertito l’urgenza di comunicare alla famiglia di Luigi Calabresi, prima che alla stampa, la concessione della clemenza a Ovidio Bompressi. Non è la forma che interessa. Il perdono, anche etimologicamente, è dono. Lo concede lo Stato ai responsabili di un delitto come un gesto umanitario. Lo concedono, come dono di riconciliazione, le vittime ai loro carnefici. Quel dono non è nella disponibilità di chi fa leggi, di chi governa il Paese o lo rappresenta nella sua più alta magistratura.

Il perdono è per le vittime – le sole che possono perdonare – una “barriera insuperabile da superare” perché perdonare è impossibile e il perdono è sempre illusorio. Chi perdona compie questo passo doloroso per affidare ad altri quel che egli non riesce più a pensare. Che la storia possa continuare. Ecco perché bisognava comunicare alla famiglia del commissario Calabresi, come fosse un dovere, l’atto di clemenza per Bompressi: per aiutarla a pensare che ci può essere un nuovo inizio.

In modo approssimativo, dunque, e a tempo scaduto è stata concessa la grazia ad Ovidio Bompressi e si è ripristinata tout court la legalità, come ha ripetuto in questi anni con coraggio e la necessaria nettezza il solo Marco Pannella. Sarebbe, infatti, riduttivo credere che questa storia, che si trascina da quattro anni, sia unicamente il calvario personale subìto da un uomo contro il quale lo Stato si è accanito con un potere punitivo inutilmente afflittivo, ormai mera vendetta politica. Questa storia è la storia di una violenza istituzionale – eversiva – inflitta dal governo, o meglio da un ministro di giustizia nel silenzio complice del suo governo, alla Costituzione e ai poteri esclusivi del capo dello Stato. Lo si è scritto e lo si è detto mille volte in questi anni. Roberto Castelli si è attribuito con una mossa abusiva, mai censurata dal suo presidente del Consiglio, una prerogativa che non gli apparteneva, che la Carta fondamentale non gli assegnava. Il Guardasigilli pretendeva di avere addirittura una “responsabilità” nel provvedimento di clemenza, un potere di concerto. Rivendicava di partecipare con una decisione “politica”, partigiana, all’indicazione del beneficiario. Invocava addirittura un potere di interdizione, di veto.

La grazia, come ha argomentato buona parte dei costituzionalisti, non è stata mai in realtà riconducibile al potere di indirizzo politico di un governo. Come è giusto che sia per un atto gratuito, straordinario, residuo arcaico del potere di un sovrano, non di un governo, non di una coalizione politica, non dell’esercizio di potere dell’Esecutivo. Al ministro, la Costituzione assegna soltanto il compito dell’istruzione del provvedimento, quindi “un ruolo servente rispetto al Quirinale” (Michele Ainis). Il guardasigilli istruisce “il fascicolo”. Lo invia al capo dello Stato con una proposta favorevole o sfavorevole alla concessione. La sua controfirma al provvedimento di clemenza è “un atto dovuto” (Andrea Manzella, Francesco Paolo Casavola, Giuliano Amato) perché il ministro “non ha nessuna responsabilità di merito” (Augusto Cerri). Questo è il percorso corretto di un provvedimento di clemenza, se si sta alla lettera della Carta.

Ancora ieri Castelli, per nostra fortuna non più ministro, ha voluto riproporre la sua interpretazione “costituzionale”, per così dire. La formula (“ingiustizia è fatta”) e il paradigma (certezza della pena) che ha scelto svelano – se ce ne fosse stato ancora bisogno – il suo assoluto rifiuto a comprendere il senso più autentico della grazia. Soprattutto quelle parole ci dicono il suo odio tutto politico per Bompressi e Sofri, trasformati ai suoi occhi in icone di una “sinistra classista e radical chic”. Nei lunghi anni della querelle politico-istituzionale è stata questa e soltanto questa – un’assoluta inimicizia – l’unica ragione dell’opposizione del ministro al provvedimento di clemenza. A questo livido sentimento politico, il ministro con l’accondiscendenza del governo ha voluto piegare il dettato costituzionale rifiutandosi di inviare i documenti al Quirinale, minacciando poi di non “controfirmare” il provvedimento del capo dello Stato, creando di fatto un conflitto tra poteri dello Stato. Per troppo tempo, non si è voluto vedere la gravità dello strappo istituzionale confidando che un paziente lavoro di “moral suasion” potesse proteggere la legalità violata. In attesa che la clemenza tocchi anche Adriano Sofri e nella convinzione che la famiglia di Luigi Calabresi possa affidare alle generazioni future il dono del perdono e della riconciliazione, l’insegnamento che si può trarre da questa storia infinita è che la Costituzione si difende con severa intransigenza.

Sempre e comunque. Soprattutto, quando in gioco è l’equilibrio tra i poteri dello Stato.