Caro direttore, qualche giorno fa nel mio programma Le Storie su Raitre ho dato la notizia che sto per acquistare il kit della “buona morte” in vendita a Bruxelles e credo anche in Olanda. Il prezzo è contenuto, meno di cento euro, possono comprarlo i medici sotto la loro responsabilità per un uso professionale deontologicamente appropriato. Come sai, sono stato a Bruxelles cinque anni e conservo parecchie conoscenze. Vedo ora che la notizia ha avuto qualche eco e credo di dover spiegare meglio che cosa intendessi e le ragioni di questa scelta indubbiamente grave.
Prima però di scrivere devo fare una doppia premessa. So bene che l’eutanasia, comunque motivata, è nel nostro paese un reato. Sono anche consapevole che non solo nel paese ma nella stessa comunità di Repubblica coesistono sull’argomento sensibilità diverse. D’altronde si tratta della decisione più grave che un essere umano possa essere chiamato a prendere e dunque dubbi personali, conflitti di tipo religioso, tentazioni di opposta natura, sono giustificati e più che comprensibili. Perché, dunque?
Recenti esperienze che non esito a definire tragiche di persone a me vicine mi hanno messo a contatto diretto con l’infamia di una morte troppo a lungo rimandata. In quel povero corpo straziato nulla era più rimasto di umano, se per umanità intendiamo il controllo di sé, la consapevolezza del proprio essere, la possibilità di comunicare con i nostri simili, quell’attività cerebrale, anche minima, che sola ci distingue dagli altri esseri viventi. La povera creatura aveva di tanto in tanto intermittenti pause di lucidità durante le quali capiva il baratro nel quale era precipitata e piangeva dirottamente, in silenzio, senza singhiozzi. Ho immaginato che potendo ci avrebbe chiesto perché non interrompevamo il suo strazio, quale ferocia, quale viltà ci impedisse di farlo.
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Aveva ragione Epicuro quando esortava a non temere la morte perché, scriveva: “Quando c’è lei non ci sei tu, quando ci sei tu non c’è lei”. Infatti non è della morte che dobbiamo preoccuparci, una condizione inevitabile la sola certezza che abbiamo; l’abbandono della vita, lì s’annida il problema. Non inquieta l’oltretomba, l’Ade, il Purgatorio o comunque si voglia immaginare (sperare) un’esistenza oltre la morte, la questione è la soglia, la linea di confine che separa questo da quello e che può diventare intollerabile e spaventosa.
Caro direttore, per farla breve, vorrei essere sicuro di poter morire con dignità. Si racconta che la sera prima delle fatali idi di marzo, Cesare fosse andato a cena da Decimo Albino. A un certo punto il padrone di casa gli chiese con aria di sfida: “Qual è per te la morte migliore, Cesare?”. Nel gelo improvviso della sala si udì la voce di Cesare, ferma, pacata, già lontana: “Non vorrei una morte lenta. La morte migliore è la meno attesa”.
C’è nel suicidio consapevole responsabilmente esercitato (perché anche il suicidio può diventare una futilità) una traccia della virtù romana antica. Il desiderio di restare padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare.