RADICALI ROMA

“I love Radio Rock” di Richard Curtis: una fragile libertà

 

“I love Radio Rock” di Richard Curtis: una fragile libertà

 

 

Non sono tanto numerosi i film che raccontano il mondo della radio.

Le ragioni di tale disinteresse sono evidenti: in una radio, contano soltanto la musica o le parole. Mentre al cinema, di solito, contano di più le immagini. Insomma, da un punto di vista visivo, una trasmissione radiofonica può essere alquanto monotona. Ma ci sono eccezioni. Per esempio l’ultimo film di Robert Altman, prima della sua morte, intitolato “Radio America”, raccontava di un varietà radiofonico che era però registrato su un palcoscenico, ed era quindi a tutti gli effetti uno spettacolo teatrale, divertente e sfolgorante.

Tra il film di Altman e quello di cui vado ad occuparmi – “I love Radio Rock” – un recente film inglese – c’è un tratto in comune.

La rubrica radiofonica di “Radio America”, che esprimeva l’humour e il folklore di una vecchia America country, stava per essere cancellata dai palinsesti. E, dunque, a contrasto con l’allegria del varietà, si respirava nel film un senso di fine, di morte.

“I love Radio Rock” racconta di una radio libera degli anni Sessanta, realmente esistita, ed enormemente popolare in Inghilterra.  Ma il governo vuole metterla fuori legge, ed è sull’orlo della catastrofe.

Il film conta su alcuni spunti visivi e narrativi che scongiurano la possibile monotonia a cui accennavo.

Anzitutto, c’è un elemento scenografico originale: Radio Rock trasmette da una nave –  una “nave pirata” – che vaga nel Mare del Nord.

Trasmette un notiziario, ma soprattutto musica rock, all’epoca molto marginale sulla radio nazionale, la BBC. I conduttori, i dj, e il proprietario della radio – uniti dal culto della nuova musica – ne fanno propri anche i valori culturali, ritenuti trasgressivi dall’establishment dell’epoca. E danno vita, all’interno della nave, a una specie di comunità alternativa, dove è ammesso l’uso della droga, è bandita qualsiasi forma di razzismo, e si pratica il libero amore (sia pure con moderazione, a ben vedere). (E questo è un elemento narrativo che ci fa uscire dagli studi radiofonici, dove d’altra parte si dà conto, agli ascoltatori, della vita a bordo).

Ma l’azione si sposta poi anche a Londra dove alcuni deputati, spaventati dal successo della radio e dalla cultura libertaria che attraverso i suoi microfoni potrebbe diffondersi nel paese, varano una legge ad hoc, che, con un pretesto, è mirata a chiuderla.

Non rivelerò come le cose vanno a finire. Dirò soltanto che Radio Rock è allo stesso tempo vinta e vincitrice. E che ci sarà una spettacolare mobilitazione dei suoi ascoltatori per salvarla.

Il film, diretto da Richard Curtis, non va sempre per il sottile.

L’ambiente gelido e velenoso dei deputati conservatori è nettamente contrapposto all’ambiente caldo e solidale all’interno della nave.

Qui, in particolare, l’uso del grottesco è a volte incontrollato, come quello di situazioni spinte intenzionalmente al paradosso. Insomma il film cade, o, a seconda dei gusti, si spinge, in un genere di comicità cosiddetta “demenziale” (definizione che però non comporta di per sé un giudizio di valore).

Tuttavia, a momenti, nei rapporti fra gli animatori della radio – e in particolare fra loro e un ragazzo che per qualche tempo si trasferisce sulla nave – il film presenta alcune note più fini, psicologicamente più vere.

Questi “libertari” non hanno l’aria di essere tali in assoluto e come per natura. (Sarebbe questa una caratterizzazione convenzionale, un clichè). Si sente invece che appartengono a un’epoca e a una nazione, ancora conservatrici e repressive; che la ricerca di una maggiore libertà – anche se dichiarata in forme spettacolari – è, interiormente, timida e incerta; che l’utilità di formare una comunità è anche quella di incoraggiarsi e di imitarsi a vicenda.

Insomma, il film suggerisce molto bene che il mondo di Radio Rock ha in sé qualcosa di fragile; come sono forse fragili tutti i movimenti di innovazione e di ribellione al momento del loro germoglio.