RADICALI ROMA

Il coraggio dei cattolici

Costretta a distrarsi per un’ora dai telepremi a quiz, l’opinione pubblica guarda in faccia la realtà, anzichè la “reality” fittizia della tv. Dolore e morte, argomenti tabù per la modernità, così evitati, quasi ufficialmente imprevisti e disdicevoli da aver fatto nascere gremite località turistiche senza cimiteri, tornano a interpellare l’uomo della società del benessere.

 

 

 

  L’appello straziante di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare che chiede per sè una «morte opportuna» dopo interminabili sofferenze, scuote e obbliga a parlarne, anche se stiamo insegnando ai giovani a «non pensarci», a scansare i vecchi e i malati. L’uomo che crede in Dio non si turba davanti alla drammatica provocazione radicale, all’invito pressante ed emotivo a discutere di accanimento terapeutico, di testamento biologico e di eutanasia. E’ bene parlarne, anche nella divisione più netta dei presupposti e delle analisi, è bene ricordare che non tutto è bollicine e spettacolo, successo ed applauso. Ci sono persone che patiscono, c’è gente che piange senza colpe.

 

 

 

 E’ bene ritornare ad ascoltare il grido di Giobbe: perché a me e per quanto tempo ancora? Se l’inquietudine dei radicali aiuta, dalla sponda opposta, a parlare del dolore e della morte, di questa spinta il cattolico non può avere paura. Non è vero che la Chiesa impedisce di guardare in faccia il tema terribile del limite del dolore. Una religione fondata da un Gesù che, inchiodato alla croce, chiese a suo padre, cioè a Dio padre, perché lo avesse abbandonato e che da uomo desiderò la fine della propria sofferenza, non ha alcuna visione oscurantista di fronte alla dignità del vivere e del morire. Detto senza ipocrisia, ognuno di noi coglie la differenza fra il frenare l’ostinata azione tecnica che impedisce con ogni mezzo alla morte di venire e la scelta di aiutare e accelerare la venuta della morte. Questa seconda azione, chiamata eutanasia, contraddice l’idea cristiana di vita e si scontra con il comandamento, centrale dalla Genesi al Vangelo, di non uccidere, per nessuna ragione. Napolitano ha percepito con vigile sensibilità l’importanza del tema e la esigenza morale di non far finta che Welby non avesse fatto il suo appello. «Il solo atteggiamento ingiustificabile – ha scritto il Presidente della Repubblica nella risposta – sarebbe il silenzio». E ha chiesto di riflettere. Riflettere significa porsi all’altezza sia del dolore che ci interpella sia dell’idea di vita che abbiamo maturato. Questo dovere di consapevolezza è l’unico che può essere comune in un argomento che non consente manovre di banalizzazione politica. Livia Turco, ministro della Salute per i Ds, mostra nella prima reazione che il suo partito non ha smarrito il collegamento con il senso comune nazionale: «Non vorrei che tutto si riducesse a un referendum pro o contro l’eutanasia». E ha invitato alla serenità e alla pacatezza.

 

 

 

 La politica permetta che a parlare siano innanzitutto le coscienze. Poi verrà anche la sua ora, quando si capirà se si capirà qual è il passo più giusto da fare.

 

 

 

 lo ricordo una mattina all’alba di essere stato svegliato a Fez dalla voce del muezzin che gridava all’Altissimo la richiesta dei fedeli appena desti. Essi imploravano Allah di concedere ai malati rimasti insonni nella notte almeno un’ora di riposo. Nient’altro diceva la preghiera.