RADICALI ROMA

Il fantasma dell'Iri

  Due fantasmi si aggirano per le stanze dei ministeri economici di mezza Europa: il fantasma della proprietà pubblica e quello della proprietà nazionale. Si aggirano soprattutto da noi: erano già presenti con il governo di centrodestra e sono puntualmente tornati con quello di centrosinistra. In un Paese con un’industria privata debole, pressato dal bisogno di uno scatto di competitività, essi spesso si presentano in coppia e i loro argomenti sono suadenti: le «teste» delle industrie strategiche devono rimanere in Italia. E se il privato non ce la fa, allora intervenga il pubblico. Pubblica o privata, dobbiamo però avere una grande industria nazionale in settori avanzati per tornare a crescere. Gli argomenti per resistere al fantasma «nazionale» è tornato ad esporli Pippo Ranci in un articolo su Il Sole-24ore del 22 settembre, sul contenuto del quale concordo pienamente. Come è possibile rispondere al fantasma «pubblico», suo gemello? Un fantasma la cui ultima apparizione — il famoso documento Rovati — è recentissima ma che aleggia alla lontana anche quando non si progetta di ampliare la proprietà pubblica nell’economia e ci si limita a parlare di politica industriale e di collaborazione tra pubblico e privato per identificare iniziative di sviluppo promettenti. Gli argomenti che mi sembrano più persuasivi non discendono da un liberismo dottrinario, dalla vera e propria fede che anima non pochi miei colleghi. Fu una fortuna che le pressioni americane non riuscirono a indurre i politici democristiani del dopoguerra a smantellare l’Iri e a bloccare lo sviluppo dell’Eni: con l’industria privata che allora ci ritrovavamo, probabilmente non saremmo riusciti a sostenere lo straordinario sviluppo degli anni Sessanta e Settanta. E se fossi vissuto in Francia, negli anni Novanta, probabilmente non avrei appoggiato un disegno di privatizzazioni e liberalizzazioni con la stessa convinzione con cui lo difesi in Italia: nel suo insieme, l’industria pubblica francese era tecnologicamente all’avanguardia e gestita secondo impeccabili logiche aziendali.

 

 

 

In Italia non era così: nonostante la presenza in essa di numerose aree di eccellenza tecnica e gestionale, l’inquinamento politico aveva corrotto così a fondo le sue strutture che essa non era salvabile come proprietà pubblica. Al di là dell’onere che Iri, Efim e Gepi avevano già addossato allo Stato — un calcolo Mediobanca dell’ottobre 2000 lo stimava in circa 95.000 miliardi di lire — era proprio la formula che non funzionava: a partire dalla metà degli anni Sessanta, progressivamente, la proprietà pubblica aveva permesso ai partiti di governo di travolgere ogni logica aziendale. Un effetto che la Francia, per la diversità del suo sistema politico e per la qualità della sua pubblica amministrazione, era riuscita a scongiurare. Il nostro sistema politico è mutato e la qualità della dirigenza pubblica è forse migliorata. Ma anche se fenomeni di inquinamento politico come quelli della Prima Repubblica fossero oggi evitabili, tornare indietro sarebbe privo di ogni giustificazione economica. Un conto è costruire un’indispensabile industria di base in un Paese semi-agricolo; un altro promuovere un insieme di nuove iniziative in un contesto così sofisticato, mobile, imprevedibile com’è quello in cui deve competere un Paese avanzato oggi. Spero che il piano «Industria 2015» lanciato dal ministro Bersani abbia successo. Lo spero realisticamente perché sono sicuro che egli è consapevole dei rischi che corre una politica industriale pubblica che pretende di indovinare i settori in cui l’industria italiana può avere maggior successo.