RADICALI ROMA

Il grande show della spesa pubblica

  Avremmo già tagliato un fantastilione di triliardi, per usare la mitica unità di misura di zio Paperone, se fossero state buone le assicurazioni sentite in questi anni. Di più: avremmo già le finanze in ordine e le casse piene e il debito pubblico azzerato. Perché non c’è ministro che non abbia ripetuto ciò che oggi, chiamati a presentare i loro conti per fare la Legge finanziaria (quella che ogni anno giurano di abolire e ogni anno ripresentano), diranno i membri del governo a Tommaso Padoa-Schioppa: «I tagli li abbiamo già fatti, di più è impossibile ». Prendete il pianeta sanitario. «Obiettivamente nella sanità non c’è più niente da tagliare», assicurò Francesco De Lorenzo nel lontano luglio 1992. E da allora, via via che cambiavano maggioranze e i premier e i responsabili del dicastero, è stata una litania: «Basta tagli, abbiamo già dato». «Siamo al collasso, basta tagli». «L’opera di risanamento è avviata, ulteriori tagli sarebbero inaccettabili ». E cosa ti spiega invece un rapporto dell’Ocse? Che «la quota di spesa sanitaria sul Pil era pari al 7,7% nel 1990, 7,9% nel 2000 e 8,4% nel 2004». Di più, in Italia, la crescita della spesa sanitaria «è stata più rapida della crescita del Pil» come in larga parte degli altri Paesi occidentali anche se «la spesa sanitaria quale quota del Pil ha continuato a mantenersi al di sotto della media Ocse». Accusa confermata nel maggio dell’anno scorso da Farmindustria: «In 15 anni, dal 1990 al 2005, mentre c’è stata una grande attenzione al contenimento della spesa farmaceutica, cresciuta del 20%, lo stesso non è avvenuto per quella sanitaria, aumentata dell’80%». In termini reali, s’intende. Sul piano dei numeri assoluti, infatti, la progressione colpisce ancora di più: 46 miliardi di euro nel 1992, 58 nel 1998, 68 nel 2001, 79 nel 2003, 97 (più 3) nel 2007 e su su… Fino al punto che, stando alle previsioni del ministero dell’Economia, il costo complessivo di ospedali e farmaci e servizi ambulatoriali e convenzioni e così via salirà nel 2009 a 111 miliardi. E meno male che da anni, a sentire i ministri, non si fa che tagliare, tagliare, tagliare.

 

 

 

SCOPERTE PARADOSSALI – Perlustrare gli archivi offre scoperte straordinarie. Come il bellicoso altolà del ministro del lavoro socialdemocratico Michele Di Giesi all’uscita da una riunione in cui il Giovanni Spadolini aveva chiesto a tutti «riduzioni da apportare ai bilanci dei singoli ministeri». Era il settembre 1981. L’anno dopo avrebbero dato le dimissioni 219 bidelli milanesi: 8 perché erano arrivati ai limiti di vecchiaia, 211 (96%) per approfittare delle pensioni baby. La signora Francesca Zarcone sarebbe andata a riposo giovanissima 11 mesi dopo l’assunzione definitiva. E una friulana, Ermanna Cossio, avrebbe battuto ogni record ritirandosi a 29 anni e andando a prendere come prima pensione il 94% (avete letto bene: novantaquattro per cento) dell’ultimo stipendio. Il prode Di Giesi, però, fu irremovibile: «Non posso accettare riduzioni di prestazioni sulle pensioni». Per carità, rispetto ai tempi in cui Bettino Craxi ironizzava sul rigore dei liberali («Hanno fondato un’associazione per il taglio della spesa che ha per stemma le forbici dimenticando che sono il simbolo degli eunuchi »), è cambiato tutto. E una certa consapevolezza della gravità dei conti pubblici c’è. Il tormentone, però, si ripete immutabile. Anno dopo anno. «C’è una ferocia contro i tagli che abbiamo fatto che sono stati meditati, giusti, seri. Una ferocia impressionante. Questa Finanziaria ha degli aspetti paradossali. Tutti dicono: pochi tagli di spese. E poi c’è una ferocia contro i tagli. Nessuno vuole che si taglino le spese che lo interessano», si sfogò Romano Prodi alla prima Finanziaria del suo primo governo. Un giorno prese di petto i Popolari: «Non volete tagli sui trasferimenti ai comuni, non volete ticket e non volete si tocchino le pensioni: i soldi però sono necessari, dove li prendiamo?». Neppure Silvio Berlusconi, che pure godeva dentro il suo esecutivo di un potere enorme rispetto ai predecessori (per non dire del successore), riuscì a scampare a questi grattacapi. «E’ dal 2001 che stringiamo la cinghia, adesso servono fondi», sbuffò a un certo punto Girolamo Sirchia. «Il ministero della Giustizia non può più sopportare tagli sui consumi intermedi, siamo arrivati al limite», avvertì Roberto Castelli. «Se le cose stanno così, voto contro la Finanziaria e vado via», minacciò in una drammatica seduta di fine settembre del 2002 Antonio Marzano. «Certo non perderò tempo a chiedere soldi per la legge sull’immigrazione, perché è nel vostro interesse che venga finanziata. Altrimenti non potrò applicarla e sarete voi a rimetterci», tuonò Beppe Pisanu ricordando come non si potessero tagliare fondi al la sicurezza. «Che figuraccia faremmo a livello internazionale se lesinassimo i soldi ai nostri militari?», chiese Antonio Martino. E via così. Nonostante la premura del Cavaliere che per stemperare il clima fece portare un grande vassoio di babà.

 

 

 

L’ASSALTO AL TRENO – Padoa-Schioppa, che ha chiesto a tutti di non aumentare di un centesimo le spese, paventa un ennesimo assalto all’«ultimo treno per Yuma», come Giuliano Amato ribattezzò un dì la Finanziaria? Il timore, stretto com’è tra Clemente Mastella («Basta tagli») e Franco Giordano («Altri sacrifici sono inammissibili») è legittimo. Chi certo non lo invidia, almeno sul piano umano, è Giulio Tremonti che un giorno, alle prese con la Moratti che, invelenita per i tagli alla scuola, minacciava fuoco e fiamme, sibilò: «Questo è il governo, cara mia, mica tuo marito». E in mezzo a tutti i colleghi che lo tiravano per la giacca chiedendo più quattrini sospirò su una sua vecchia battuta: «Ma chi me l’ha fatto fare di diventare ministro di un Paese così povero?».