RADICALI ROMA

Il mercato e l'eguaglianza

 

In molti dibattiti sento rinnovare la domanda posta da Piero Ostellino a Michele Salvati, Francesco Giavazzi, Nicola Rossi e a me sul Corriere del 18 ottobre: «Come può la sinistra sopravvivere alla propria conversione al liberalismo?». Rispondo con una domanda a mia volta: «Come può il liberalismo affermarsi oggi se non è la sinistra a farsene portatrice? ». Una società moderna deve garantire sicurezza a tutti; non sopporta disuguaglianze eccessive nel benessere delle persone. Possiamo dunque permetterci il libero mercato soltanto se siamo capaci di combinarlo con sicurezza e sostegno ai più deboli. E questo è il mestiere tipico della sinistra.

 

 

Una sinistra che si proponga essenzialmente l’equa ripartizione delle risorse e delle opportunità, garantendola a individui liberi di scegliere, non può fare a meno della tecnica raffinata di governo dell’economia che consiste nel costruire un mercato libero e ben funzionante, eliminandone distorsioni e asimmetrie: finora non è stata inventata alcuna tecnica migliore di questa. Dove non opera un vero mercato concorrenziale, le ingiustizie sono, mediamente, molto più diffuse e più gravi: «Il mercato — ha scritto il grande economista liberal Arthur M. Okun — ha più spesso subito delle limitazioni per salvaguardare il potere e i privilegi per i pochi che per garantire eguali diritti per i molti» (Equality and efficiency, 1975).

 

Il mercato concorrenziale, però, ha un «difetto politico»: esso (non crea, ma) evidenzia con grande precisione le differenze di capacità tra gli individui. E queste, nel passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, stanno fortemente aumentando. Poiché la civiltà di un Paese si misura da come stanno i suoi cittadini più poveri, ci è politicamente difficile abbandonare le vecchie tecniche di garanzia autoritativa delle pari opportunità, che generano in realtà posizioni di rendita da un lato, esclusioni dall’altro, ma danno una confortante illusione di uguaglianza tra i cittadini. Abbandonare quelle tecniche si può soltanto mostrando di saper garantire in modo più efficace il sostegno ai «perdenti », la loro inclusione nel grande gioco a somma positiva.

 

 

 

Proviamo ad applicare questa idea nella materia caldissima del lavoro. Oggi, assai più di ieri, di lavoro da fare ce n’è per tutti: ciò che genera la falsa percezione di una «scarsità del lavoro» è il malfunzionamento del mercato, causato anche da un eccesso di vincoli, posti nel tentativo (fallito) di garantire a tutti degli standard minimi di trattamento. Anche nel mercato del lavoro la vera libera concorrenza non si dà «in natura», ha bisogno di regole; ma non della giungla di regole che oggi lo rendono vischioso e inaccessibile. In un mercato che consentisse un incontro più libero fra domanda e offerta — nel rispetto dei diritti civili fondamentali — sarebbe spazzata via l’attuale ingiusta divisione fra chi sta dentro e chi è escluso dalla cittadella fortificata del lavoro regolare; e sarebbero i lavoratori stessi a poter licenziare gli imprenditori peggiori e scegliere i migliori. Ma in quel mercato la riduzione dei vincoli aumenterebbe le differenze di trattamento fra i lavoratori regolari, evidenziando le disuguaglianze di capacità tra gli individui assai più di quanto accada oggi.

 

 

 

I più bravi o fortunati guadagnerebbero di più; se ne avvantaggerebbe anche la fascia mediana; e gli ultimi della fila non rischierebbero l’esclusione; ma questi rischierebbero un salario insufficiente.

 

 

 

Una vera liberalizzazione del mercato del lavoro — con tutti i vantaggi che essa porta con sé in termini di mobilità sociale, pari opportunità e valorizzazione del merito — è dunque politicamente pensabile soltanto in un sistema capace di dare un sostegno forte ai più deboli.

Un sistema di questo genere è, per esempio, quello che governa il mercato del lavoro in Danimarca: grande libertà nei rapporti contrattuali fra imprese e lavoratori, compresa la libertà di licenziamento per motivi economici, ma al tempo stesso grande capacità del sistema di prendere per mano chi perde il posto, garantendogli continuità del reddito combinata con servizi efficienti di informazione e orientamento, formazione mirata alle possibilità di lavoro effettive, assistenza alla mobilità. Tutto questo è opera di una sinistra politica: appartiene alla tradizione della grande social-democrazia scandinava.

 

 

 

Oggi probabilmente neppure questo basta più: occorre saper fare fronte a disuguaglianze molto più marcate di quelle tipiche della vecchia fabbrica fordista. Qui le nuove frontiere della «costruzione dell’uguaglianza» sono quelle del reddito garantito per tutti i cittadini fino a quindici anni e del potenziamento della scuola, per combattere la disparità delle dotazioni fin dal suo nascere; quella della contribuzione previdenziale a carico dell’erario per i «bassi servizi», i bad jobs; quella dell’esenzione fiscale totale per i redditi di lavoro bassi. Tutti temi tipicamente propri dell’agenda di una sinistra moderna.

 

 

Questo non significa che solo la sinistra possa liberalizzare il mercato del lavoro.
Significa che anche la destra, se vuole farlo davvero, deve imparare a fare almeno un po’ il mestiere proprio della sinistra.