«Voltare pagina» è stato lo slogan del discorso torinese di Walter Veltroni al momento della candidatura; uno slogan non privo di fascino pur nella sua indeterminatezza. L’imbarazzante situazione di candidato designato vincitore prima del voto imponeva a Veltroni uno scarto rispetto ai due apparati che vanno fondendosi con mille prudenze e alcune indicative chiusure. Certo ci sono stati i numerosi elettori delle primarie, ma il Pd nasce segnato all’esterno da un pregiudizio che accomuna compagni di coalizione e avversari. Si tende a vedere la nuova creatura come un minicompromesso storico fuori tempo massimo, somma di burocrazie ancora potenti ma in fondo residuali, addizione di due debolezze. Così «voltare pagina» ha voluto significare un decisionismo felpato, secondo le caratteristiche del personaggio, per marcare il ruolo e affrancarsi dai rischi di diarchia con Romano Prodi sul fronte del governo e con Massimo D’Alema su quello del partito. Più che autentici guizzi finora si sono viste morbide allusioni a problemi comunque centrali per la connotazione del nuovo partito.
Già a Torino, ma anche dopo, Veltroni ha toccato i problemi del lavoro e dell’economia in modo cautamente revisionista rispetto alla tradizionale impostazione della Cgil, fino addirittura a sfiorare il tabù per eccellenza, il fatidico articolo 18. Se dovesse proseguire su questa strada, ma non è detto, farebbe i conti in modo forse lungimirante con un problema che comunque il Pd si trova davanti: il rapporto col sindacato. La questione è seria perché, se il modello a cui Veltroni si riferisce è quello delle socialdemocrazie nordiche e dei democratici americani, lo schema nordeuropeo (ma anche quello statunitense) prevede un rapporto naturale fra sindacato e partito della sinistra. Il guaio è che il sindacato italiano è di tipo mediterraneo, ideologico, diviso in confederazioni politicamente orientate piuttosto che in federazioni di categorie come veri centri di iniziativa.
Per di più l’ultimo congresso dei Ds ha perso un settore di quadri Cgil a vantaggio della «cosa rossa» e nemmeno i rapporti con Guglielmo Epifani sono eccellenti. Tanto varrebbe allora giocare sul fronte dell’innovazione rispetto a temi come lavoro, stato sociale e rappresentanza dei nuovi soggetti. Le timide prove di dialogo con il professor Pietro Ichino potrebbero autorizzare a pensare a qualcosa di simile. Sarebbe davvero una novità seria.
Come nuovi rispetto alla politica estera di Prodi e D’Alema sono apparsi alcuni accenni alla necessità di una maggiore fermezza europea nei confronti dell’Iran. In controtendenza rispetto a questi spunti appare invece la mossa veltroniana in tema di riforma elettorale. Torna al proporzionale, avallando la svolta del «porcelloni», chiude il Pd in una autosufficienza che, oltre a essere tutta da dimostrare, gli preclude eventuali nuovi piccoli ma significativi apporti. Soprattutto retrocede da uno schema sostanzialmente bipartitico a cui la nascita del nuovo partito pareva voler alludere a una logica di «mani libere» dopo il voto che spossessa gli elettori della certezza della loro scelta. Non resta che sperare che questa idea sia stata concepita, mentre Silvio Berlusconi insiste nella richiesta di elezioni anticipate, al fine di prendere tempo, imbastire un dialogo con settori della opposizione e predisporre una sorta di rete di sicurezza. Per la legislatura più che per Prodi.
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