RADICALI ROMA

Il romanzo di Pasolini. Dar voce ai ragazzi di vita bastò a fare scandalo

  In una lettera che spedisce a Livio Garzanti, nel novembre del 1954, Pier Paolo Pasolini spiega con puntualità, capitolo per capitolo, lo schema del romanzo che sta scrivendo. Quelle pagine sono importanti, non solo perché mostrano la complessità dei problemi strutturali e stilistici che l’autore ha dovuto superare durante la stesura di “Ragazzi di vita”, ma soprattutto per mettere a fuoco una poetica che sceglie subito il rapporto esplicito con la storia e con la realtà presente. Scelta radicale e apparentemente antiletteraria, che fu fraintesa e giudicata sbrigativamente dalla critica dell’epoca. Non si colse la letteratura che il romanzo proponeva, relegando l’opera, nel migliore dei casi, a reperto sociale, a mero documentario sulle borgate romane, con tutte le fatali derive ideologiche. Pochi hanno riflettuto su un risultato formale, cioè letterario, costruito sulla base di una particolare prospettiva dello scrittore. Il tentativo di dar voce diretta, non mediata dall’autore, a una classe sociale geneticamente esclusa dalla letteratura, ha dato origine a una scrittura sperimentale. Un atteggiamento analogo, negli stessi anni, stava assumendo Giovanni Testori con i suoi racconti milanesi.

Un romanzo raccontato dall’interno, in libero indiretto, è frutto di uno sguardo non obiettivo, mimetizzato negli ambienti e nei personaggi. E poiché qui non si tratta di borghesi, comunque portatori di un loro zodiaco di riferimento etico, capaci di giudicare l’ambiente in cui vivono e si muovono, Pasolini non poteva, stilisticamente, imporre una propria visione dell’universo che andava descrivendo, magari scegliendo una figura borghese di comodo.
Di qui la necessità di un impianto narrativo che da solo suggerisca al lettore la chiave interpretativa. Ecco cosa scrive a Garzanti a proposito di “Ragazzi di vita”: «La mia poetica narrativa consiste nell’incatenare l’attenzione sui dati immediati. E questo mi è possibile perché questi dati immediati trovano la loro collocazione in una struttura o arco narrativo ideale che coincide poi col contenuto morale del romanzo. Tale struttura si potrebbe definire con la formula generale: l’arco del dopoguerra a Roma, dal caos pieno di speranze dei primi giorni della liberazione alla reazione del ’50-51. È un arco ben preciso che corrisponde col passaggio del protagonista e dei suoi compagni (il Riccetto, Alduccio, ecc.) dall’età dell’infanzia alla prima giovinezza: ossia (e qui la coincidenza è perfetta) dall’età eroica e amorale all’età già prosaica e immorale. A rendere “prosaica e immorale” la vita di questi ragazzi (che la guerra fascista ha fatto crescere come selvaggi: analfabeti e delinquenti) è la società che al loro vitalismo reagisce ancora una volta autoritaristicamente imponendo la sua ideologia morale. Badi che tutto questo resta “prima” del libro: io come narratore non interferisco».

Pasolini non entra nel merito strettamente tecnico dello stile di scrittura, non parla della mimesi linguistica, non dice in che modo intende usare il dialetto, e secondo quali strumenti riesce a «non interferire» come narratore. Si sofferma sulla struttura del racconto, affidando a essa ogni responsabilità morale. L’arco storico è inquadrato come il paradigma del degrado, di una trasformazione sociale e culturale. Quindi nel romanzo giocano un ruolo centrale i passaggi di tempo, che scandiscono la vera drammaturgia della vicenda. In questo modo la fabula, cioè la narrazione cronologica dei fatti, è totalizzante, costringe all’episodicità degli accadimenti. Ma questi sono fortemente emblematici di un passaggio epocale, sono «simbologici», come dice l’autore stesso nella lettera.

La letteratura di “Ragazzi di vita”, o, più precisamente, la sua letterarietà (che pone il romanzo a riparo dal neorealismo), è completamente incentrata sulla scelta linguistica, sull’uso che Pasolini fa del dialetto. È scelta che ne impone una seconda: la dolente distanza, non critica, ma vitale, dalla materia del romanzo. Il romanesco con cui lo scrittore divaga, descrive e racconta, è una contaminazione tra quello dei parlanti (che non gli appartiene) e quello “imitato”, reinventato dall’autore: una reinvenzione linguistica non soltanto obbligata, ma necessaria alla elaborazione colta del racconto. Il lettore, malgrado tutti gli sforzi mimetici, non può fare a meno di “sentire” il gioco verbale e l’architettura pasoliniani. Si potrebbe perfino dire che si tratta di un calco del realismo.

D’altra parte chi non ricorda i famosi versi delle “Ceneri di Gramsci” dove il poeta mette a nudo lo scandalo della sua coscienza, bloccata nell’irrisolvibile conflitto di amore e odio («… con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere») per un mondo da cui, lui borghese ferito dal male borghese, è condannato a restare fuori. Così egli non può essere totalmente i personaggi che ama e, rifiutandosi di raccontare dall’interno la borghesia, non può nemmeno essere i personaggi che odia. Di qui la sua letteratura (ma anche il suo cinema e il suo teatro) paradigmatica, di taglio “esterno”, antropologico e ideologico. Di qui l’impossibilità di trame tradizionalmente romanzesche, e la conseguente predilezione del picaresco o il ripiegamento narcisistico.

”Ragazzi di vita”, che lo scrittore considerava una sorta di ouverture della sua narrativa di quegli anni, che doveva fondare la semiologia di un universo umano da approfondire con le opere successive, apre immediatamente la problematica di fondo di tutta l’opera pasoliniana. Opera che si è messa al servizio della realtà, raccontandone, con dovizia e passione, le trasformazioni profonde, dal fascismo fino alle porte della globalizzazione.

Chi legge solo oggi “Ragazzi di vita” si trova davanti una Roma completamente scomparsa e un’umanità, quella dei rudi “borgatari”, di struggente tenerezza. Pasolini osserva i suoi personaggi nella consapevolezza che saranno spazzati via dalla storia, o più precisamente che diventeranno ben altra e infelice cosa. Da un lato è commosso dalla vitalità di queste creature che scoprono il mondo cercando di tirarne fuori, anche se maldestramente, il meglio. Dall’altro, con forte sentimento di pietas, le vede lentamente e inesorabilmente asservirsi a un modello di sviluppo che le esclude dal suo orizzonte. Il benessere cresce intorno a questi “regazzini”, insieme con la loro fame. Più tardi perfino la fame cambierà di segno, si trasformerà in nuovi bisogni fino ad allora sconosciuti.

La Roma affamata del primo capitolo, quando ancora circolavano nelle strade i tedeschi, conserva gli ultimi sapori contadini, dove compare perfino una rondine, e nel Tevere ci si può tuffare. L’emblema è una vecchia e sconquassata fabbricona di Monteverde Vecchio, il Ferrobedò, intorno alla quale i bambini diventano ragazzi di vita. Quel monumento, solo a guardarlo, racconta di un’epoca abortita, distrutta dal fascismo. Ora che la guerra è finita e inizia l’epoca della ricostruzione, le borgate diventano piccole, i ragazzi le lasciano spesso e volentieri alle spalle per le loro scorribande cittadine. Eccoli attaccarsi in corsa ai tram, perdersi dentro un’umanità che sta improvvisando un futuro, imbrogliona e ladra.

La capitale è disseminata di borgate e di piccoli quartieri di sfollati, si fa commercio di tutto. Da Donna Olimpia a Portonaccio, da Ponte Mammolo al Tiburtino, i ragazzi di vita si muovono come nella terra di Lazarillo de Tormes, passando da un incontro a un altro, da una illusione a un’altra, ma per fortuna senza ancora la frustrazione nevrotica della povertà, che invece diventerà il loro atroce marchio a cominciare dagli anni Sessanta. La povertà è vissuta ancora come immanenza della vita stessa, sta lì da se
mpre e non li umilia. Il danaro è troppo lontano, e sognarlo è un lusso inutile.

Il romanzo procede per frammenti e solo verso la fine lascia intravedere il mosaico. Si scopre così tutta la fragilità di un mondo che fino a poco prima sembrava ben saldo nelle sue tacite regole interne. Lasciato a se stesso non può fare altro che adattarsi alla trasformazione della città, che non è una trasformazione soltanto esterna, ma una proposta attiva e totalizzante sul modo di essere e di comportarsi in un contesto “civile”.

L’autore fa filtrare in quelle giovani anime un modello borghese a cui non si può fare a meno di adeguarsi. Il principio di realtà conduce per mano i ragazzi di vita lungo una strada obbligata, nei rituali borghesi, tra palazzi in costruzione, all’ombra di un Ferrobedò (Ferro Beton) restaurato. Pasolini così racconta il finale del libro a Garzanti: «Il Riccetto è ormai perso tra gli altri, anonimo: un giovanotto o quasi, che fa il manovale a Ponte Mammolo, chiuso nell’egoismo, nella sordidezza di una morale che non è la sua».

Il romanzo fu pubblicato da Livio Garzanti nel maggio del 1955, con notevole successo. Al di là del suo valore letterario e nonostante il puntiglioso lavoro di ripulitura dalle “parolacce” e dalle situazioni più scabrose, il libro fece grande scandalo in quell’Italietta piccoloborghese zeppa di geometri, di aspiranti commendatori e di biondine “in gondoleta”. La IV sezione del tribunale di Milano celebrò il processo per oltraggio al pudore. Sedevano nel banco degli accusati Pasolini e Garzanti. Il fango ricoprì il giovane scrittore, e proveniva sia da destra sia da sinistra, con le medesime argomentazioni. Il tribunale, anche grazie alle testimonianze in favore dell’imputato, giurate da Emilio Cecchi, Carlo Bo, Gianfranco Contini, Giuseppe De Robertis, Giancarlo Vigorelli, Anna Banti, Giambattista Vicari, Moravia e altri, lo assolse dall’imputazione.

Insomma “Ragazzi di vita” ha avuto una nascita travagliata, aggredita dalle diverse censure, segnalando alla società italiana un artista pericoloso, da tenere sotto mira. Di fatto Pasolini, da allora e per tutto il resto della sua vita, venne smaccatamente perseguitato. All’indice erano sia la persona sia le opere: sono all’incirca cento le querele e i processi subiti.

Con il senno di poi si può dire che a far scandalo non fu tanto il lessico forte del libro, ma l’idea stessa di rendere protagonista, con il suo dialetto e la sua cultura, il popolo delle borgate. La dignità letteraria che veniva conferita alla parte più bassa e disonorevole della nostra società offendeva i benpensanti e l’idea che essi avevano della letteratura. Il paternalismo comunista e la sua sclerosi culturale altro non furono che l’altra faccia della stessa medaglia. Il lavoro di Pasolini si svolse quindi in completa solitudine e nella diffidenza dei protettorati e delle consorterie intellettuali. Ma questo non penalizzò, anzi accrebbe di volume la sua voce contro.